DALLA COFFA CON FURORE,  UN PROCIONE AL GIORNO

ACCETTARE I PROPRI LIMITI

Voi vi perdonate di essere imperfetti?

Come dite? Siete fantastici, magnifici, bravissimi?
Ah, ok. Questo post non fa per voi.

Questo post è per coloro che ricercano un certo tipo di qualità in quello che fanno. Che si mettono in discussione. Che leggono e rileggono le cose che hanno scritto trovandole sbagliate, da correggere, da risistemare. Per migliorare.

L’imperfezione, dicevamo.

Ecco, io ho imparato a perdonarmi come essere umano un sacco di tempo fa (qualcuno direbbe che mi cazzio pure troppo, ma vabbè): quando hai figli è inevitabile. Pensi che avrai una famiglia gestibile e poi ti ritrovi ad ammaestrare (leggasi educare) dei Velociraptor inferociti, a cibarli e a vestirli per andare a scuola.
La perfezione non è insita nella genitorialità. Nella sua idea, forse. Nella pratica, un po’ meno.
Pace.

Ma per tutto quello che invece concerne il mio processo artistico è un altro paio di maniche: indosso i baffetti hitleriani e mi bacchetto in continuazione.

E lì casca il procione.

Credo che uno degli errori più grandi che si possa fare – mentre stiamo studiando o imparando qualcosa – sia alzare troppo l’asticella fino a farle rasentare la perfezione ideale a cui aspiriamo.
Cioè: va benissimo avere una “perfezione ideale” a cui aspirare, quello che non va bene è pensare di raggiungerla in un batter d’occhio perché sì.

Con questo non voglio nemmeno dire che si possa fare i cazzoni o che siamo giustificati perché esiste una scappatoia accettabile per la pigrizia, ma che il processo di CRESCITA COGNITIVA e quello di CRESCITA APPLICATIVA hanno due curve differenti. E che non sono mai in sintonia.

«E che vuol dire?»

Ecco, vediamo di uscire dalla modalità santone zen e di dare degli esempi pratici e comprensibili: il mio professore di Figura Disegnata al liceo ci diceva che la teoria e la pratica non viaggiano sullo stesso binario. Questo comporta che se la nostra mente ha agganciato il concetto, e l’obiettivo che deve raggiungere, non è necessariamente detto che la nostra mano abbia fatto altrettanto, ancora.
Quindi succederà che le nostre ASPETTATIVE mentali nei confronti di un disegno non saranno appagate dal RISULTATO finale che siamo riusciti a mettere su carta. Questo fino al momento in cui la PRATICA non ci porterà a raggiungere quell’obiettivo che ci eravamo prefissati e nel quale troveremo un senso di appagamento MOMENTANEO.

Momentaneo, esatto.

Perché la mente non si ferma: più impara e più si proietta in avanti verso qualcosa che sta ancora più in alto sulla nostra asticella cognitiva. Passo dopo passo, la nostra mente si arrampica verso la vetta ambita, perché vuole vedere cosa si trova in cima.

Vale per tutto, ovviamente. Vale per il disegno, per la scrittura, per la falegnameria, per la sartoria, per tutto ciò che richieda il processo combinato di progettazione e realizzazione.

Risultato? Non siamo mai contenti di quello che facciamo.

Ed è terapeutico, non vi sbagliate. Chi pensa di essere “arrivato” è già morto, perché l’unico arrivo reale è quello del trapasso finale. E forse neanche quello.

Beh, o meglio, è terapeutico finché questo non comincia a logorarci, fino a sentire che ci sta consumando. Perché riteniamo di non essere mai al passo giusto fra ciò che riusciamo a fare e quello che vorremmo DAVVERO saper fare.

Quindi, come maneggiamo questa insoddisfazione latente che ci attanaglia come artisti?

Ponendoci una semplice domanda: è il meglio che posso fare OGGI?

Non in assoluto, non rispetto al nostro idolo, non rispetto all’idea di chi ci aspettiamo di essere.
Ma oggi. Qui e ora.

Oggi guardavo uno dei video di Cynthia Sheppard che, se non sapete chi sia, è un’illustratrice con i controcazzi, capace di lavorare sia in tradizionale che in digitale. In una tripletta di video, in cui spiega come ha ripreso un disegno fatto nel 2007 e lo ha smembrato per ricostruirlo di nuovo, ci spiega i passaggi concettuali che ha adottato:

  • ha fatto il focus su quali fossero gli elementi chiave che volesse tenere;
  • ha pensato alla “storia”, o comunque al messaggio, che il disegno dovesse veicolare (già, lo STORYTELLING si applica anche all’illustrazione);
  • ha fatto alcune bozze in cui mischiava e rielaborava quegli elementi per ottenere la composizione che riteneva più efficace;
  • ha fatto una ricerca di immagini che potessero servire come riferimento, non tanto per copiarle pari pari, ma che suggerissero l’atmosfera e che evidenziassero i particolari peculiari necessari al suo scopo;
  • ha iniziato a prendere tutte queste influenze concettuali e ha creato l’identità del disegno facendo convergere il tutto insieme, fino alla fase di rifinitura.

E, alla fine di tutto, si è posta la domanda: quando posso dire di aver finito?

Ecco, lei sostiene che il momento in cui il disegno è finito è quel momento in cui, dopo aver speso un quintale di ore a progettare ed elaborare, puoi rispondere “sì” alla domanda “è il meglio che posso fare oggi?”.

Ammetto che non sia proprio una domanda facile a cui rispondere, io per prima non potrei dire “sì” così a cuor leggero, ma questo perché, fondamentalmente, sono molto esigente con me stessa.
Ma perfino io arrivo a un punto in cui mi dico: “ok, basta, più di così è accanimento psicologico verso me stessa. Ti ho già venduto la mia anima, cos’altro vuoi? Hai vinto, mi arrendo.”

Più o meno è la stessa cosa, no? Anche se la mia versione sembra più da squilibrata rispetto a quella di Cynthia. Ma tant’è.

Comunque, la cosa che mi piace di più in assoluto del suo pensiero è che, parafrasando dal suo inglese, rispondere “sì” a quella domanda ha una valenza fondamentale.

Perché, nel momento in cui tu comprendi che il tuo limite di oggi è quello (e che non potevi fare nient’altro di più rispetto a ciò che hai fatto) e lo accetti, diventa un tassello. Uno di quelli importanti. Un altro mattone che va a pavimentare il tuo percorso di artista.

Sapere che dieci anni fa, o un anno fa, hai fatto del tuo meglio, e che anche oggi hai fatto del tuo meglio, significherà che fra dieci anni sarai migliore di oggi proprio per lo stesso motivo, e tutto questo farà parte del tuo processo evolutivo artistico (e personale, dico io).

Ogni errore, ogni scivolone, ogni caduta, non possono essere degli ostacoli. Devono essere delle opportunità. Perché ognuno di essi non è altro che il sistema in cui tu riesci a trovare delle soluzioni; in cui riesci a spuntarla.
È il modo in cui dimostri alla lepre che puoi essere anche lento come una tartaruga, ma che nel tuo percorso ci credi, e che hai trovato un modo per continuare a camminare in avanti. Anche se pensi che non ci sia gara.
Perché l’unica gara è verso te stesso.

Dunque: vi perdonate di essere imperfetti?

Nel frattempo, se volete (e se masticate un po’ di inglese e vi piacciono le illustrazioni fatte bene), potete guardarvi i tre video che ho menzionato. È sempre interessante assorbire il processo creativo di altri.

#Unprocionealgiorno…

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#Storytelling

#Illustratori

#Scrittura  #ProcessoCreativo

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