ANALISI DEL TESTO,  CODICI DI LANCIO ~ DEMOLIZIONE E RISTRUTTURAZIONE STORIE,  CONFLITTO,  COSTRUZIONE DEI PERSONAGGI,  CREAZIONE DEL MONDO NARRATIVO,  DIFETTO FATALE (FATAL FLAW),  DISTANZA EMOTIVA,  MONTAGGIO,  NARRATORE E NARRAZIONE,  NON-RECENSIONI,  STRUTTURA,  WORLDBUILDING

BONACCIA: DOVE SI È PERSO L’IMMORTALE CHE ASCOLTAVA IL VENTO

APPROFONDIMENTO SU “L’IMMORTALE CHE ASCOLTAVA IL VENTO

 

Partiamo dalla trappola più evidente e comprensibile anche a chi non ha un occhio esperto nei meccanismi narrativi e strutturali di una storia.

SCRIVERE IMMAGINI NON È SCRIVERE “PER” IMMAGINI

Questo è un trappolone ENORME, un errore concettuale che viene commesso da coloro che vanno alla ricerca di un mostrato che si ferma solo in superficie, perché non è stato compreso bene.

Abbiamo parlato di termini molto ricercati, fino a sfiorare quasi il fastidio.
E adesso vi do un assaggio di quello che intendevo.

In questo libro, la ricercatezza si muove in due direzioni:

  • la prima si concentra su ciò che si vede, o meglio su ciò che il NARRATORE vede, perché l’occhio sulla scena è sempre esterno;
  • la seconda su ciò che si prova, o si vorrebbe “indurre” a provare.

Partiamo dal fatto che la pagina bianca ha lo “svantaggio”, rispetto ad altri mezzi di comunicazione, di essere “sterile” di per sé.

Non veicola nessuna esperienza percettiva.
Non è musica e quindi non si può direttamente sentire, non è illustrazione e quindi non si può direttamente vedere, non è cinema e quindi non si può direttamente vedere e sentire.
Il concetto è piuttosto chiaro.

Sulla carta tutte le percezioni sensoriali vanno ricostruite, perché la scrittura lavora sulla mente.
Può essere estremamente evocativa, certo, ma diciamo che a livello strettamente sensoriale parte in svantaggio.

Il vantaggio che ha, invece, è proprio nel concetto di “telepatia”. In quella ricostruzione cerebrale che è in grado di attuare, se ben gestita: la connessione che crea fra chi le parole le ha messe su carta e chi le sta leggendo. A cui è legata tutta la stratificazione psicologica a cui si può accedere, e che mette in connessione intima i personaggi e la persona che sta fruendo le loro vicende interiori.
Diciamo che è un mezzo che non lavora da esterno verso interno, ma da interno verso interno, per poi eventualmente sbocciare all’esterno.
Ha una connotazione privata, e per questo esclusiva per ciascuna persona che legge. Perché è inevitabile che ognuno ci metta qualcosa di sé nel processo di ricostruzione.

Dunque, partiamo dal presupposto che, da una parte, c’è qualcuno che deve elaborare un “messaggio” che deve essere comprensibile a chi lo “riceve” leggendo, dall’altra parte.

Farsi capire diventa fondamentale per innestare proprio il concetto di COMUNICAZIONE.

E questa comunicazione prevede tre passaggi:

  • da AUTORE, visualizzo nella mia testa una scena molto chiaramente;
  • da AUTORE, traduco in parole, al meglio che posso, ciò che avevo visualizzato;
  • da LETTORE, ricostruisco ciò che le parole mi permettono di rielaborare attingendo alla mia biblioteca mentale di esperienze personali.

Visto che, come in un telefono senza fili, un po’ di chiarezza si perde lungo i tre passaggi, questo meccanismo funziona bene se rimane su un equilibrio che si attesta intorno al 70/30.
Cioè, se l’autore costruisce con chiarezza il 70% del messaggio e lascia che il lettore ci metta di suo il proprio 30%.
Questo 30% è fondamentale perché il lettore ha accesso alla propria biblioteca mentale personale, costruita dalle proprie esperienze di vissuto percettivo ed emotivo.
Questo permette al lettore di sentire un po’ sua, a modo proprio, ogni storia. In modo diverso per ciascuno che la fruisce.

Però; c’è un però.

Se l’equilibrio fra le parti cambia e ciò che passo mentre scrivo è distorto, pieno di interferenze e frammentato, c’è una grandissima probabilità che ciò che ho in testa non avrà la stessa forma di ciò che il lettore ricostruirà.

Neanche alla lontana.

E questo è un bel problema. Perché si rischia di ottenere l’effetto diametralmente opposto a quello che si auspicava.

Per questo, si consiglia di dare alla mente qualcosa che possa fisiologicamente ricostruire correttamente. Visualizzare. Percepire.

E si sconsiglia caldamente di indugiare su frasi come questa:

Al lento dondolio di Anuadana, i due si abbandonarono all’espressività dei gesti e delle emozioni che vibravano sulle corde dei loro cuori, spandendosi in echi di canti tanto vasti quanto segreti.

O questa:

Lo struggimento inondò i loro cuori, tessendo nell’etere un inviolabile velo di silenzio.

Cosa significa “si abbandonarono all’espressività dei gesti e delle emozioni che vibravano sulle corde dei loro cuori, spandendosi in echi di canti vasti quanto segreti”?

Cosa fanno? Cosa provano davvero? Quali gesti? Quali emozioni?

[…] tessendo nell’etere un inviolabile velo silenzio.

Com’è fatto un “velo di silenzio”? Perché “inviolabile”?

Al lettore si chiede di decodificare “troppo”.

E tutte le energie che lui sperpera nel cercare in qualche modo di farlo, sono energie perse che potevano essere impiegate a immergersi nella storia e a viverla.

Prendiamo in considerazione questo pezzo:

Osservando il cielo fondersi all’oceano, dietro una linea di splendore quasi indistinguibile che segnava il confine fra i due mondi, Erinao si ergeva a prua, offrendo al vento idee raminghe. Faceva scorrere lo sguardo lungo l’orizzonte come per cercare i bordi dell’universo, annegando fra infinite maglie di spazi senza limiti e realtà senza veti. Nell’azzurro esteso sopra, sotto e intorno a lui si dispersero le sue esuli emozioni, svanendo in una brezza che accoglieva i pensieri d’ogni anima fin dall’alba dei tempi.

Sentite quando tutto questo suoni distante e ridondante?
Come separi chi sta leggendo dal personaggio?
Volutamente ricercato. Volutamente complesso.
Come se il testo avesse bisogno di darsi un tono; come se ciò che stiamo guardando non fosse sufficiente, e ci fosse bisogno di rivestirlo di abiti sontuosi perché si pensa che sia troppo umile.
Indegno.

[…] linea di splendore quasi indistinguibile […]

[…] offrendo al vento idee raminghe […]

[…] annegando fra infinite maglie di spazi senza limiti e realtà senza veti.

[…] si dispersero le sue esuli emozioni, svanendo in una brezza che accoglieva i pensieri d’ogni anima fin dall’alba dei tempi.

Che vuol dire?
Cosa dovrei immaginarmi?

Si nominano le emozioni del personaggio, ma non se ne ha mai accesso diretto. Neanche un attimo.

Non si tocca mai nulla davvero, e niente tocca noi.
È tutto volutamente vago. Indefinito. Indistinto.
E questo ci lascia con un senso di “smarrimento” che sa di tradimento.

Perché mi fai leggere qualcosa che non vuoi che io capisca davvero?

Perché non mi dai accesso concreto?
Perché non mi è dato di sapere cosa comportino questi “pensieri raminghi”?

Magari vorrei saperlo anche io cosa pensa un immortale.
Allora, il dubbio successivo è che non lo sappia nemmeno l’autrice cosa provi il suo immortale, o cosa pensi.

E questo è anche peggio.
Perché significa che mi stai vendendo davvero una truffa. Mi stai vendendo il fumo negli occhi.
O che semplicemente non ti importa di indagare nell’animo dei tuoi personaggi, che non sai davvero chi siano, quali siano le loro paure, i loro desideri, cosa vogliano, di cosa abbiano bisogno. Da cosa fuggano e verso cosa tendano.

E allora perché me ne vuoi parlare?
Cosa dovrebbero lasciarmi?
Perché dovrei impiegare il mio tempo per leggere qualcosa che nemmeno tu hai avuto la voglia di comprendere a fondo?

Che suggestione mi vuoi passare?

Nonostante l’utilizzo di parole ricercate, non c’è calore. È tutto freddo e insipido perché non so cosa “dovrei farci” con quelle parole.

Se riduciamo all’osso questo pezzo e lo spogliamo della poesia che lo infiocchetta abbiamo una semplice immagine: Erinao è a prua della sua caravella, il vento gli scompiglia i capelli, e in silenzio guarda la linea dell’orizzonte, pensieroso.
Stop.

Questo lo capirei chiaramente se mi venisse presentato così. Perché è in realtà ciò che mi viene passato concretamente: un fotogramma visivo, sommerso da una quantità di parole aggiuntive che mi distolgono da questa immagine.

520 battute contro 128. Il quadruplo.

Avrebbe dovuto scriverlo come l’ho scritto io?
No.

Perché, seppur visivamente chiaro, manca di uno spessore che altre percezioni aggiuntive avrebbero conferito.

La visione, da sola, è comunque qualcosa di bidimensionale.
Non è sufficiente a rendere tridimensionale la pagina.

(Siamo ancora nell’ordine di SCRIVERE IMMAGINI, invece che SCRIVERE “PER” IMMAGINI.)

Adesso che io ho Erinao sulla prua, in piedi davanti a una distesa infinita di azzurro, voglio sentire cosa prova. Voglio percepire quel vento addosso.
Voglio sentire il solletico dei capelli lunghi smossi sul viso o sulle spalle, o la frescura che porta con sé la brezza, voglio sentire l’odore della salsedine, voglio sentire le onde che si infrangono contro la carena della nave o il rumore del vento nelle vele gonfie, voglio capire cos’è che lo rapisce, in quali pensieri stia indugiando davvero. Cosa lo turba, cosa lo quieta.
Voglio sapere PERCHÉ sia lì. Cosa significhi PER LUI quel momento.

Non è detto che voglia saperlo tutto insieme. Ma qualcosa devo pur “sentire”. E quelle 520 battute iniziali possono essere sfruttate a tuttotondo, per dare tridimensionalità e spessore emotivo a quel momento.

Non c’è emozione nel dire che un personaggio è emozionato, o che vive tutte le emozioni del mondo. Devi mettermi in condizione di provarli sulla pelle, quei sentimenti.

Altrimenti si perde il focus. Per far vivere e percepire quell’emozione, quel momento va reso “portatore” di emozione.
E questo avviene solo se la scena viene impostata in modo che possa farlo.

«Cioè come?»

Mettendo in scena il meccanismo che permette al mio cervello di attingere a una specifica emozione. Esteriorizzando l’interiorità.

«E come si fa?»

Eh. Dimostrandola. (Come abbiamo visto in questo articolo QUI.)

Solo a quel punto avrò scritto PER IMMAGINI.

Nel momento in cui quel singolo istante sarà pregno di un significato facilmente decodificabile, perché supportato da indizi e gesti che lo rendano tale, si rivelerà per ciò che è.

Questo ci porta al problema numero due, o tre, riguardo al fatto che manchi la STORIA e di conseguenza manchi il CONFLITTO che la muove. Non solo nel personaggio, ma anche nella trama. Perché questo crea un vuoto che non ci permette di poter entrare realmente nell’intimo del personaggio che stiamo seguendo. E per il quale dovremmo provare EMPATIA.

Ve ne do un assaggio nell’incipit del prologo:

Le bianche vele tremolavano al tocco di un vento straniero, sotto un cielo grave dove le nubi si intrecciavano come una maglia di cupi pensieri. Le onde danzavano intorno alla candida chiglia di Anuadana, il Fiore del Mare, sbocciato fra gli abbracci severi e sublimi dell’oceano del Nord. Fiera, la caravella tagliava le argentee acque, avanzando rapida ad ali spiegate verso la terra di Alkena, il cui profilo si intravedeva dietro una coltre di rada foschia. Nuvole basse scivolavano in seno alla baia, rubando le sfumature di colore disperse fra il bianco e il bruno del litorale, vestito da un Inverno inoltrato.
Man mano che Anuadana si approssimava al porto, la sua corsa si faceva più lenta. Ombre di altre barche e velieri strisciavano nella nebbia, silenziose e riservate, apparendo e scomparendo tra fumosi lembi di bruma.
Erinao navigava solo, mirando i profili del paese rivelarsi poco per volta, come un quadro dipinto dalle mani di Anu. Nelle sue iridi d’argento si riflettevano immagini note, quelle di una terra di cui già portava memoria, seppur il tocco di quei ricordi giungesse al suo cuore lieve e melanconico quanto la neve che costellava la brezza di Alkena.

BONUS INCIPIT:

Ok. Queste sono le prime duecento parole; quelle con cui mettiamo piede nelle vicende.
Quelle più importanti in assoluto in un libro, perché sono il primo passo dentro di esso.
Queste duecento parole bastano a convincere un lettore a proseguire o a darsela a gambe.
Non l’ho deciso io, purtroppo (o per fortuna) è proprio così.
(Anche nel caso in cui un manoscritto finisca sulla scrivania di un editore, queste duecento parole basterebbero a fargli dire “Sì. No.” alla possibilità di proseguire a leggerlo, e quindi giocarsi la possibile pubblicazione.)
Un buon incipit ti cala nella vicenda abbastanza da volerne sapere di più.
E il modo per poterlo fare si basa su alcune accortezze e caratteristiche da tenere in considerazione.

Un buon incipit:

      • deve incuriosire, non necessariamente su quello che sta avvenendo in quello specifico momento ma anche nei riguardi di quello che potrebbe succedere “dopo”;
      • deve suggerirmi l’idea del potenziale conflitto che potrei trovare all’interno della storia o di quello che muove il personaggio;
      • deve darmi degli accenni dell’ambientazione. Devo poter capire se siamo su Marte, se tutto si gioca in un bar nel Chianti, nel medioevo europeo o in Asia;
      • deve, se possibile, darmi l’idea di chi sia il protagonista che andrò a seguire.
La parola d’ordine è COLPIRE: catturare l’attenzione.

Se osserviamo questo incipit in relazione a quei parametri, l’unico che potremmo riconoscere più marcato è quello che riguarda l’AMBIENTAZIONE.
Infatti c’è una grande concentrazione di dettagli relativi alla descrizione dell’ambiente. Ma, purtroppo, non in maniera tale da essere efficace, perché risente del vizietto di prima sulla pomposità del linguaggio.
Molti caratteri vengono “sprecati” per far emergere dettagli che in questa fase – in questo momento del libro – al lettore non interessano.
Informazioni e dettagli che non hanno la capacità di coinvolgere perché non sono “funzionali” a convergere verso la costruzione di domande nel lettore. Fra le quali, quella più importante di tutte: “E poi che succede?”.

Moltissime battute sono dedicate alla caravella su cui viaggia Erinao, non su di lui. E sembra quasi che lui e la sua “missione” siano in secondo piano rispetto a ciò che la nave rappresenta.
Però non dovrebbe essere così. Il fuoco sulla scena dovrebbe essere su di lui. Lui dovrebbe avere l’occhio di bue addosso, mentre piano piano tutto intorno comincia a illuminare un palco completamente buio.

I dettagli ambientali sono troppi e dispersivi. E, paradossalmente, se l’incipit iniziasse con questa frase:

Erinao navigava solo.

Sarebbe stato molto più interessante.

Facciamo un collage brutto, a cazzotto, e vediamo se riesco a farvi capire cosa intendo.

Erinao navigava solo. Sotto un cielo grave dove le nubi si intrecciavano come la maglia dei suoi cupi pensieri.
I profili di Alkena si riflettevano nelle sue iridi d’argento; una terra di cui già portava memoria. Si intravedevano dietro una coltre di rada foschia in cui altre barche e velieri strisciavano, silenziosi e riservati, apparendo e scomparendo.
Le onde danzavano intorno alla candida chiglia di Anuadana e le bianche vele tremolavano al tocco del vento straniero. Man mano che si approssimava al porto, la sua corsa si faceva più lenta.

Lo stile è lo stesso. Le parole sono (pressoché) le stesse. Ma il focus è diverso.

Erinao è da solo, perché naviga da solo.
Il cielo non è sereno e nemmeno lui lo è.
Si sta approssimando a una terra che conosce, ma che non è la sua, altrimenti il narratore ne parlerebbe diversamente. La nave rallenta avvicinandosi al porto quieto, in cui altre navi galleggiano pigre sulla superficie di un mare preso dalla nebbia.

Quello che possiamo intuire è che il paesaggio riflette un po’ lo stato d’animo del personaggio e ci sovvengono delle domande che lo riguardano. Domande che vorremmo che la narrazione piano piano ci svelasse.

Anche solo riprendendo gli stessi elementi e cambiandone l’ordine, in poche righe abbiamo impostato “una direzione” più chiara di come appariva prima. Abbiamo ristretto il campo per allargarlo via via, in modo che lo sguardo si fermasse su una sequenza più “fluida” di informazioni. Che sembrano concatenate in modo più fruibile.

(Anche se, ancora, il pezzo risente di tutti i difetti già espressi, adesso abbiamo tracciato lo “scheletro” di una suggestione (più) comprensibile per quanto fumosa.)

 

Andiamo avanti con il prologo.

L’aria spingeva sulle vele della caravella e la forza di un grave destino conduceva il marinaio lungo mille diverse rotte, mille vie che si dipanavano in ogni insenatura del mondo. In quel grigio giorno, Erinao giungeva dal mare per svelare alla terra i segreti del vento.

Mi fermo solo un altro attimo per dire che questa frase appena letta va a spiegare (più o meno) direttamente, quello che l’incipit rimaneggiato ci avrebbe già suggerito. E, in questi termini, la renderebbe superflua, o anche nulla.
Questo significa che, in generale, gestendo le informazioni e le suggestioni che abbiamo in possesso, possiamo essere capaci di “suggerire” al lettore un’atmosfera, un umore, uno stato d’animo, una dinamica relazionale senza doverlo “imboccare” direttamente.

Tutto quello che il lettore ha la possibilità di ricostruire concettualmente da solo lo fa sentire IMPORTANTE. Non gli nega il suo ruolo nella fruizione del libro. Gli dà uno scopo comunicativo da perseguire. Lo mette in condizione di fare la sua parte, senza SUBIRLA.

Una fila di barche e velieri ciondolava lungo il molo di Alkena, in un costante coro di cigolii simili a un nostalgico canto. La voce del paese era soffusa, quasi soffocata dal velo di silenzio che la nebbia e la neve stendevano sopra ogni cosa. Si udivano, come echi dall’incerta provenienza, alcune parole di genti che transitavano per le vie di ciottoli, di naviganti che salpavano o rientravano e di gruppi di bambini le cui voci bianche ringiovanivano l’aria del vecchio Inverno.
Anuadana aveva chiuso le ali al porto, riposando fra altre imbarcazioni il cui aspetto svelava la diversa provenienza. Fra larghi velieri bruni, robusti e massicci, essa appariva come un candido uccello slanciato, pronto a librarsi sul soffio dei cieli.
«Voi, straniero!» una ruvida voce attrasse l’attenzione di Erinao, che aveva appena messo i piedi sul pontile. «Quali affari vi portano ad Alkena?»
Con fare distaccato, il marinaio rivolse all’uomo un’occhiata fugace. Questi si vide costretto a rifuggire il suo sguardo: quegli occhi parevano specchi affacciati su un abisso privo di fondo, fatto di tempo, ricordi e sapienza. La sicurezza con la quale si era rivolto al forestiero vacillò, come se stesse annegando nella profondità della sua anima di immortale.
«Devo recare un messaggio», rispose Erinao, lasciando che la sua voce si confondesse con l’aria che spirava leggera come se ne fosse parte.
L’altro rimase in silenzio per un momento. Lo osservò, soffermando l’attenzione sul fisico alto e robusto, coperto da indumenti in pelle chiara e da un pesante manto di pelo grigio.
I lunghi capelli, candidi come la neve più pura, ricadevano lisci lungo la schiena e le spalle. Portava in fronte un sottile diadema d’argento, al cui centro brillava un diamante.
«Quello è un…» l’uomo fece per dire, indicando il gioiello come un bambino meravigliato da una visione fantastica.
Erinao lo trafisse con un’altra occhiata penetrante e, senza che queste fossero le sue primarie intenzioni, troncò il flusso delle sue parole.
«Siete il nuovo custode del porto?» chiese, deviando il discorso.
«Sì», confermò l’Alkenese dopo una breve esitazione. «Non ho mai visto nessuno della vostra etnia approdare su queste rive. Vi ho notato appena ho veduto giungere la vostra caravella. Non ne avevo mai ammirata una di persona, prima d’ora. Ho solo sentito molte storie riguardo le navi del vostro popolo da parte di alcuni fra i viaggiatori più avventurosi. Ha un aspetto quasi esile, eppure sembra pronta a sfidare la più furiosa delle tempeste.»
«Avete altro da chiedere?» domandò l’immortale, dopo aver ascoltato impassibile quelle parole.
«Io…» esitò il custode, «immagino di sì, signore. Dov’è il vostro equipaggio?»
«Navigo solo», rispose il viaggiatore con fare imperscrutabile.
«Voi… governate questa nave da solo?»
«Sono un Enyr. Gli spiriti del vento assistono il mio viaggio.»
L’uomo rimase interdetto per qualche istante. Alcuni fiocchi di neve si sciolsero sulle sue gote arrossate dal freddo, su cui il tempo iniziava a lasciare l’impronta. «È un onore per Alkena ospitare un Mediatore», aggiunse poi. «Dovevo immaginarlo, ho spesso sentito dire che molte persone della vostra etnia appartengono a questo nobile ordine.»
«Non resterò a lungo. Salperò oggi stesso.»
Il guardiano del porto annuì, compì un passo indietro e accennò un inchino, come se volesse sottrarsi a un dialogo in cui iniziava a sentirsi sempre più inadeguato.
«Vi auspico quindi un piacevole soggiorno, signore», concluse di fretta, «quale che sia la sua durata.»
Erinao si congedò con un cenno del capo prima di inoltrarsi fra i viali di Alkena.
I ciottoli ricoperti da un sottile velo di neve rilucevano alla tenue luce del giorno e dai tetti spioventi delle dimore pietrose gocciolavano lacrime di cristallo. L’immortale procedeva a passo spedito, ignorando gli sguardi sbigottiti dei paesani e i commenti sussurrati. Nonostante l’incedere rapido e deciso, sul suo cuore gravava un pesante fardello. Lievi aliti di vento lo accompagnavano lungo le strade, fra gli angoli e gli incroci.
Gli sguardi sgomenti di alcuni passanti che incrociavano il suo cammino tradivano il fatto che quel vento, talvolta, baluginava. Leggiadri aliti di brezza che sembravano portare riflessi iridescenti soffiavano accanto all’Enyr, che si faceva strada nella realtà degli Uomini. Appariva loro come una
visione materializzata nella vita quotidiana dei paesani Alkenesi, donando un’esperienza da raccontare fino alla fine del tempo.
Lo straniero si ritrovò davanti una grande piazza circolare.
La neve scivolava lenta nell’etere, cullata da sporadici sospiri, tessendo fra i profili delle dimore una cortina di cenere bianca.
Edifici in pietra circondavano lo spiazzo, al cui centro sorgeva una fontana dai getti cristallizzati dal gelo. Aurei bagliori tremolavano dietro ampie finestre bordate di legno, da cui spesso pendevano piante dalle foglie coriacee, immuni al tocco dell’Inverno.
Erinao attraversò la piazza e imboccò un viale che procedeva in leggera salita. Passò accanto a numerosi porticati, sbirciando oltre i vetri e scorgendo scene di vita quotidiane e familiari. Di tanto in tanto alcune parole giungevano da lontano a ricordargli il suono delle voci umane. Come una
musica acerba e struggente, quei cori indistinti permearono il suo animo di un profondo cordoglio, unito alla commozione per genti destinate a vivere sempre sull’orlo del tramonto, in una precaria esistenza a cavallo fra la vita e la morte, eppure ignare abbastanza da non accorgersi mai di tale condizione.
L’acciottolio di una carrozza tirata da una grigia pariglia fendette il silenzio del viale, quando questa passò rapida accanto a Erinao e svanì nella foschia. L’andatura dello straniero si era fatta più lenta, ora che il cuore gli suggeriva di essere quasi giunto a destinazione. Si fermò, infine, davanti a una piccola porta di legno. Prese fra le dita il batacchio di ferro nero che pendeva dal centro e, senza esitare, diede tre colpi decisi. Il suono parve vibrare nella sua mano. All’interno della dimora alcune voci confuse borbottarono fra loro. Si udirono poi dei passi affrettati avvicinarsi all’uscita, finché il clangore di una chiave preannunciò l’aprirsi della porta cigolante. Una donna di mezza età sbirciò da dietro l’uscio semiaperto.
Guardò all’esterno con circospezione, come se ricevere visite fosse per lei un evento preoccupante. Sussultò appena scorse la figura di Erinao, indietreggiando di alcuni passi e portandosi le mani al cuore. La porta, lasciata libera, si aprì del tutto con un lieve gemito. Tre bambini seduti su un tappeto, davanti a un camino scoppiettante, volsero lo sguardo verso la donna e lo straniero.
«Chi è, mamma?» chiese quello che sembrava il fratello maggiore.
«Ah…» balbettò la donna, ancora scossa dalla visione. «È uno… Yelnael, tesoro. Un Elfo del Nord.»
«Un Elfo del Nord!» esclamò entusiasta un secondo bambino, correndo dal visitatore per guardarlo da vicino.
«Eberio, aspetta!» disse la madre, allungando una mano per afferrarlo. Il figlio, però, guizzò verso lo Yelnael così rapidamente che in un batter di ciglio fu al suo cospetto, con la bocca spalancata e gli occhi sgranati che brillavano di emozione.
Erinao si abbassò sulle ginocchia, osservandolo con attenzione, come se cercasse qualcosa di nascosto dietro il suo sguardo. Con un dito gli sfiorò una gota e sorrise, lieto del fatto che il bambino continuasse a specchiarsi nei suoi occhi scrutatori senza esserne spaventato. Il marinaio non disse niente, ma parve che fra i due fosse appena stato trasmesso un muto segreto. Il piccolo accennò a un sorriso incerto, poi si voltò verso la madre e corse a stringersi alle sue gambe.
Lo straniero, intanto, si rialzò e chiuse adagio la porta dietro di sé. «Sono venuto a cercare voi, signora», disse con voce calma e profonda.
«Chi… chi siete?» ella domandò, non riuscendo a capire se le emozioni che infuriavano nel suo cuore fossero più amene o spaventose.
«Mi chiamo Erinao. Sono un Enyr dell’isola Alla Nuara. Un marinaio, un messo del cielo. Vengo da terre lontane per recarvi un messaggio.»
«Eberio, torna dai tuoi fratelli», mormorò la donna, rivolta al figlio. «Penso che messer Erinao debba parlare solo con me.»
Il bambino esitò un momento, rivolgendo un ultimo sguardo allo straniero, prima di obbedire e tornare dai fratelli che, d’altro canto, erano rimasti immobili, come pietrificati dalla sconvolgente sorpresa.
Cercando di nascondere le mani che tremavano incontrollate, ella attraversò un arco di pietra che separava il salotto da una piccola cucina. Là, intorno a un tavolo rettangolare, vi erano sei sedie di paglia. La donna ne indicò una, invitando l’ospite a sedere. Dopo ch’egli ebbe eseguito, si accomodò a sua volta di fronte a lui. Tenne le mani sotto il tavolo, nella speranza che il tremore passasse inosservato. Il bagliore di alcune candele disposte negli angoli della cucina dipingeva sui loro volti intrecci di ombre e caldi riflessi dorati.
«Non dovete temermi, Linelda», disse Erinao, nel tentativo di alleviare i timori di lei.
L’altra accennò un riso imbarazzato, dal quale trasparirono tutte le emozioni che non riusciva a mascherare. «Conoscete il mio nome», disse con voce vacillante, «dovevo immaginarlo, ma… è comunque sconvolgente.»
«Conosco il vostro nome, quello dei vostri figli e quello di vostro marito, perché gli Spiriti Celesti mi hanno recato notizie sul vostro destino.»
I sentimenti di Linelda iniziarono a traboccare dai suoi occhi verdi, incorniciati da capelli rossastri legati in una grande treccia raccolta intorno al capo,come una corona leggermente scompigliata. Le labbra chiare, sottili e un poco screpolate si contrassero in un’espressione di pena, accentuando le rughe che sulle pallide gote erano appena accennate.
«Le mie visite inattese presso sconosciuti non portano mai gioia e pace, purtroppo», riprese lo straniero, affrettandosi a dire quel che doveva. «Eppure tale è il mio intento: donare alle genti le ultime e più grandi gioie che altrimenti il tempo potrebbe loro rubare. Nessuno si accorge di quando i giorni divengono più preziosi, di quando la vita dei propri cari sta per giungere alla fine.»
Linelda, colta da un violento capogiro, si resse il capo con una mano. «Cosa volete dire?» chiese con un soffio di fiato.
«Gli Anylu, gli Spiriti Celesti, mi svelano nomi», spiegò Erinao, con fare serafico e al contempo afflitto. «Lo fanno nel vento. Quei nomi, signora, appartengono a persone la cui vita si appresta a tramontare.»
Gli occhi della donna si spalancarono in un’espressione incerta fra il terrore e l’incredulità, e le lacrime sgorgarono incontrollate. Fece per dire qualcosa, ma la voce le morì nella gola, strozzata da una morsa crudele.
«Tale è il mio destino», proseguì Erinao, «il mio dono e la mia condanna. So chi è prossimo a morire nei pressi di ogni terra che attraverso. Non ho mai svelato i nomi a nessuno, prima di adesso, poiché non lo ritenevo opportuno. Ho però infine capito che il silenzio non era ciò che gli Spiriti Celesti volevano da me. Sono qui da voi, ora, al fine di adempiere per la prima volta al ruolo che mi è stato affidato dai cieli.»
Le afferrò le mani stringendole nelle sue, sul vecchio tavolo consunto. «Ho udito il nome di vostro figlio Eberio», disse tutto d’un fiato. «In nome del firmamento e degli Anylu che vegliano sulle nostre vite chiedo a voi, a vostro marito, ai vostri figli e a ogni persona che amate di trarre da questo tempo la maggior luce possibile. Sarà d’aiuto a voi per vivere senza rimpianti e all’anima di Eberio per librarsi verso nuove vie, portando con sé un grande bagaglio d’amore. L’amore, Linelda, è ciò che fa crescere un’anima. Se glie lo donate senza restrizioni, egli rinascerà portando in sé un’innata quantità di luce, che sboccerà presto dentro il suo cuore. In qualunque corpo, luogo o tempo sorga la sua prossima alba.»
La donna lasciò cadere il capo sul tavolo, poggiandovi la fronte. Prese a singhiozzare, cercando di farlo il più silenziosamente possibile. Erinao, che ancora le stringeva le mani, soggiunse: «Possa da questo dolore nascere il più profondo ed eterno amore. Siano le vostre lacrime fonte dei più splendidi sogni, dal nostro triste tempo alla fine di ogni tempo.»
La stretta delle loro mani si sciolse. Lo Yelnael si alzò e guardò ancora per un momento la donna con il petto appoggiato sul tavolo, scosso da forti e silenziosi singulti.
Senza dire altro, tornò nel salotto in cui attendevano i tre figli di Linelda. Incrociò lo sguardo di tutti, soffermandosi a osservarli come se in loro vedesse qualcosa di miracoloso, qualcosa di più ampio e immenso di quanto qualsiasi uomo avrebbe potuto immaginare. I bambini sorrisero al misterioso Elfo del Nord, che ricambiò il sorriso con tutta la luce che aveva in cuore. Il suo volto, austero e solenne, si illuminò di una meraviglia radiosa come il Sole che nasce dietro le più
maestose tempeste. Dopo un ultimo, silenzioso saluto, il cui seme d’incanto rimase posato nei cuori dei tre piccoli uomini, Erinao lasciò la dimora e svanì nel giorno nebbioso.
Il suo passo tornò a farsi rapido lungo il viale affiancato dai portici, finché poco più tardi un grido lo raggiunse da lontano:
«Erinao!»
Si fermò e guardò indietro. Vide Linelda sopraggiungere di corsa, sorreggendo la gonna del lungo vestito scarlatto che spiccava nella nevosa foschia come un fiore in Inverno. La aspettò sinché lo raggiunse. Quando gli fu davanti, ella gli prese le braccia, stringendole con tutta la forza. «Quando?» chiese disperata, con il volto sciupato dalla profonda angoscia.
«Quando e come succederà?»
Lui la prese in un forte e imprevisto abbraccio. La strinse a sé come una sorella, come una figlia. Rimasero così per molto tempo, sotto il velo di neve che spolverava di bianco i loro abiti. Infine, dopo un lungo silenzio in cui nel cuore della donna vibrarono tutto l’amore e la compassione che
l’immortale poteva donarle, egli rispose: «Non mi è dato saperlo. Benedico ogni vostro giorno.»

Avendo letto fino a qui, dovreste aver sperimentato il modo di scrivere di Estelwen Oriel e quello che intendevo in merito riguardo all’EMPATIA per il personaggio.

Nel prologo, ci viene presentato il personaggio di Erinao nel momento in cui sceglie di rivelare per la prima volta uno dei nomi che gli sono stati rivelati dal vento: è il nome di un bambino.
Ed Erinao approda in una cittadina costiera e si ferma davanti alla porta di una casa in cui è presente una madre con tre figli piccoli.

Dovrebbe essere un momento straziante. Struggente. Rivelatore. Dovrebbe condensare il CONFLITTO interiore di Erinao che è diviso fra ciò che gli Spiriti Celesti (gli Anylu) vogliono da lui e la consapevolezza di cosa questo comporti. Dovrebbe farci intuire il perché fra tutti i nomi da cui poteva iniziare ha scelto di confidare proprio quello di un bambino. E che ripercussioni ha questa scelta per il personaggio.
Insomma, dovrebbe essere un momento denso di pathos.

E invece è tutto molto freddo. È freddo il luogo (ma descritto in modo poetico e artefatto), sono fredde le movenze di Erinao, è freddo il suo modo di spiegare le sue motivazioni, è freddo lui.
Composto e distaccato. Come se l’avesse già fatto un milione di volte e questo gesto avesse già perso di significato. Abbiamo una piccola apertura “affettiva” sul finire della scena, ma non è sufficiente a darci ciò che ci serve per comprendere il personaggio che stiamo seguendo.
(Soprattutto, è innaturale anche la reazione della madre. Sia a livello di coerenza che di impatto narrativo. Ma ci torneremo sopra.)

«Eh, ma non è detto che un personaggio debba rivelare tutto subito…»

No, infatti. È vero.

Ma il modo in cui i personaggi entrano in scena la prima volta ha una grande importanza: anche se non ci dice tutto di lui, ci SUGGERISCE qualcosa di lui.

Ci dà una prima impressione di chi ci stiamo apprestando a seguire. Erinao deve GUADAGNARSI la nostra attenzione; la sua prima entrata in scena deve farci dire: “Ancora”.
Aprendoci a nuove domande, a curiosità, a un ventaglio di possibilità che è ancora inesplorato.
Invece lui è chirurgico e sterile. E questo lo rende vuoto.
O quantomeno “non memorabile”.

E questo è un altro problema, perché il prologo ci serve a farci capire anche ciò che provano tutti quelli che stanno intorno a Erinao. Ci dà un assaggio di QUEL mondo narrativo e ci fa capire dove ci stiamo muovendo con la mente. Quali sono le regole del gioco e cosa dobbiamo o possiamo sperare di aspettarci.

Sarebbe stato molto diverso se Erinao fosse approdato ad Alkena, avesse portato il primo nome alla madre di Eberio, e poi fosse rimasto lì. E ne avesse portato un secondo il giorno dopo, e lo stesso pomeriggio un terzo; e da lì a una settimana altri due o tre nomi.
La gente avrebbe iniziato a guardarlo male già al secondo nome, a crederlo un portatore di sventura e un ladro di anime; avrebbe cominciato a ribollire fra il dolore, l’impotenza e la rabbia; alla fine della settimana lo avrebbero cacciato via armati di forche e cercando di lanciare dardi infuocati alla sua nave.
Quella sequenza di scene (magari) ci avrebbe anche permesso di vedere alcune dinamiche legate al suo modo di scegliere quali nomi dare o meno: se avesse portato solo il nome di alcuni, per una specifica motivazione, avrebbe seminato un criterio, un pattern da poter riconoscere altrove e a cui poter dare un senso. Magari utile alla storia che sarebbe venuta dopo.

Infatti, la reazione della madre avrebbe potuto/dovuto essere molto più accentuata. Di rifiuto.

Questo avrebbe potuto conferire a Erinao un pretesto credibile per “chiudersi” ai sentimenti. Di trasformarsi da uomo sensibile e buono, in un uomo che, per assolvere il proprio compito, è costretto a barricarsi dietro la logica per giustificare il dolore, proprio e altrui, derivato dal proprio mandato.

Gestire il prologo in quest’altro modo avrebbe avuto più senso e avrebbe impostato il livello di CONFLITTO in cui il personaggio si muove, in relazione al MONDO NARRATIVO che sta calcando.
Avrebbe impostato limiti e regole, nello spazio e nel tempo del contesto della storia, e avrebbe contribuito a farci capire i propositi di Erinao, in relazione o in contrapposizione a ciò che è ammesso o inconsueto.

Invece, questi indizi “sociali” sono solo abbozzati e lo spessore del personaggio è appena accennato, per dare spazio ad altro.

In tutto il brano, l’importanza che si dà alla “confezione” della scena ha un peso maggiore rispetto a quello che viene dato alle motivazioni che muovono i personaggi, e a cosa questo comporti.

Così, non ti tifiamo per Erinao.
Zero empatia: non ci importa della sua missione celeste, non ci importa di chi è, non ci importa di quello che potrebbe capitargli.
Lo conosciamo appena e l’impressione che ci ha dato non ci ha colpiti. Eppure avrebbe dovuto, per quello che rappresenta, colpirci come un maglio alla bocca dello stomaco.
Abbiamo visto una madre che riceve il nome di uno dei suoi figli e prende coscienza del fatto che dovrà perderlo.
Dovremmo essere a pezzi. Distrutti. Devastati.
Invece gli abbiamo dedicato appena un battito di ciglia e un: “Ah. Ok.”

Quello che Erinao fa non ha alcun significato per noi, perché non ci è permesso di affondarci le mani e la mente dentro. Ne siamo fuori, l’autrice ci tiene tassativamente a distanza e ci lascia lì, a fare da spettatori. Distanti e poco coinvolti.

Questo è strettamente legato anche a un altro problema, sempre nei confronti dei personaggi: sono tutti uguali (o comunque MOLTO SIMILI fra loro).

I PERSONAGGI NON SONO STATI ESPLORATI A DOVERE

Nel libro sono presenti un sacco di nomi “strani”. Ci può stare, ovviamente, visto che stiamo parlando di elfi. E quindi attingiamo a una sorta di bagaglio pregresso che altre opere ci hanno fornito e che ci hanno abituato in merito: gli elfi hanno nomi ricercati e complicati.

Bene. Questo però complica un po’ le cose, perché non sono solo gli è elfi ad avere nomi strani: lo sono anche gli Spiriti Celesti (Anylu), il nome della specifica etnia di Erinao che è un elfo del Nord (Yelnael), le città (Alkena, Ekhaya) e via dicendo.
Erinao, nello specifico, viene chiamato in almeno tre (o quattro) modi differenti in base a cosa i personaggi e il narratore decidano di concentrarsi di volta in volta. Anche questo può essere un problema, e in effetti, un po’ lo è.

Sono nomi a cui noi non siamo veramente “abituati”, anche se ci “suonano” classificabili come elfici.
Possono sembrarci ostici, di primo impatto: non fanno parte della nostra lingua e sono così tanti che dobbiamo acquisire, attraverso le scelte dell’autore, la capacità di poterci destreggiare in mezzo a loro con disinvoltura.

Quindi è necessario che ogni cosa nominata in elfico abbia una connotazione chiara, precisa e ricordabile.

E il mio consiglio sarebbe quello di inserirli un po’ per volta in modo che il lettore non sia troppo in debito di informazioni inizialmente, e che possa consolidare ogni nuovo termine contestualizzandolo in maniera solida, prima di passare al successivo.
Se ne vengono messi troppi, tutti insieme, il rischio è quello di trovarsi davanti a qualcosa che sembra una supercazzola in piena regola.
E questo non mi sembra esattamente un bene.

Se mi si dice “Stelaryon” io devo subito connotare chi sia quel personaggio e devo distinguerlo da Enulyadel o da Noemarya… o da Feavyel.
Perché non sono Luigi, Simona o Giorgione.
Molti di quei nomi, proprio per come sono concepiti, potrebbero essere indifferentemente usati sia per un maschio che per una femmina. Proprio perché hanno una codifica differente da quella che identifica la nostra lingua di appartenenza.

Quindi. In nome della chiarezza, ogni personaggio deve essere ben connotato.
Ma non solo nel nome. In tutto ciò che lo contraddistingue.

Un po’ perché abbiamo bisogno di capire chi siano, specialmente quelli che non sono sempre in scena, un po’ perché definisce la gamma di comportamenti che possiamo e dobbiamo aspettarci da loro, in quanto elfi, in quanto immortali, in quanto individui facenti parte di una data società.
E il fatto è che in questo libro non avviene.
Questi immortali si assomigliano più o meno tutti. Sia nel modo di parlare (molto pomposo e ricercato) sia nel modo di comportarsi (con qualche piccola eccezione).

I personaggi non sono stati esplorati. Non si hanno chiari i loro PERCHÉ specifici e la loro collocazione sociale, le loro aspirazioni, i loro rimpianti. Niente di niente.

(Per esempio, Noemarya descrive sé stessa come una principessa amata dal proprio popolo, ma non abbiamo un contesto tangibile a dimostrarlo. Non ci viene fatto vedere, e per noi questo particolare si regge solo sulle sue parole.
Non l’abbiamo PERCEPITO di prima mano e quindi non “esiste” in modo concreto.
Non ha IN ALCUN MODO la stessa valenza che avrebbe se ci venisse presentato direttamente.)

Questo non va bene, per due motivi:

  • non si capisce CHI siano DAVVERO i personaggi. Non hanno contorni netti. Né in ciò che fanno, né in ciò che rappresentano.
    Si confondono gli uni con gli altri come se facessero parte della stessa categoria rappresentativa: “gli elfi”. Ma non abbiamo idea di cosa facciano per l’intera eternità che si portano addosso, come vivano la loro condizione e soprattutto “a cosa servano”.
    Non sono ben connotati a livello caratteriale; lo sono solo a livello estetico. Ma questa estetica si perde nei meandri della moltitudine di parole profuse, considerando il discorso fatto prima sull’abitudine dell’autrice a sommergere e infarcire di ghirigori poetici quello che scrive.
    Soprattutto non riusciamo neanche a percepire una differenza tangibile fra gli umani e gli elfi.

    (Vi sfido a dirmi con certezza assoluta che la terra di Alkena sia abitata da umani, da elfi, o da un misto di entrambi.)
    In una terra pseudo-medievale, con condizioni di vita difficoltose per la razza umana, per coerenza, un elfo che approda e porta il nome di un bambino che deve morire di lì a qualche giorno, come minimo si ferma anche tre porte più giù a fare il nome del boscaiolo. E magari il giorno dopo dell’anziano che muore di vecchiaia. E due ore dopo, quello della ragazza che vende le ostriche al mercato o del mendicante che sta morendo di fame. È plausibile che in una terra mortale la gente muoia quasi in continuazione. Così, a pensarci meglio, avrebbe molto più senso se gli Spiriti Celesti dessero solo alcuni nomi, e solo per motivi specifici. A quel punto si intravedrebbe un disegno. Le maglie di un gioco prestabilito, che ha le sue regole, e dal quale il personaggio deve essere messo in condizione di cogliere “qualcosa” di utile per il proprio percorso. Soprattutto perché è proprio l’autrice a mettere in campo un concetto di contrapposizione Luce/Ombra e dell’occasione di separare le due componenti prima della morte di un individuo per far sì che possa “liberarsi” dalla propria parte “corrotta” dall’oscurità, prima di (eventualmente) rinascere in una versione migliore.

Da qui, il secondo punto:

  • non viene esplorato cosa comporti essere immortale, anche in relazione al concetto di Luce e Ombra che viene chiamato in causa dall’autrice. Non ci viene presentato un carnet di possibilità di cosa comporti esserlo. Come gli elfi scelgano di approcciarsi a questa condizione, come siano bilanciati luci e ombre dentro di loro. E come impostino e vivano la loro esistenza.
    Non c’è alcuna ESPLORAZIONE TEMATICA, in merito.

«Avrebbe dovuto esserci?»

Avrebbe aiutato molto, sì.

Vi faccio un esempio.

La letteratura fantastica è piena di personaggi immortali.

Però, un vampiro vive l’immortalità in un modo, e Superman la vive in un altro.
Sono diverse le motivazioni, è diverso l’approccio al tempo, il significato che gli danno e come lo impiegano.
È diversa la nostalgia che possono provare di una vita mortale di origine e la solitudine che possono provare nel perdere una alla volta le persone che hanno amato, sopravvivendo loro.

In questo libro non si capisce realmente cosa comporti essere immortali. Non c’è una connessione concreta con questa condizione che però viene menzionata spesso. Soprattutto non si capisce perché, per un immortale, dovrebbe essere un problema l’arrivo della morte. Non si comprende realmente cosa li tenga “legati” al concetto di vita. (Soprattutto legato al concetto di separazione di luce e ombra dallo spirito di un corpo, al momento della sua morte.)
Non si capisce nemmeno quale sia il loro contributo fattivo al luogo a cui appartengono.

Questa esplorazione mancata è un terreno di gioco fertile per tutta una mancanza di altri conflitti insiti nei personaggi. Senza sapere come vivono la loro condizione, non possiamo comprendere di cosa abbiano paura e perché, cosa anelino, e di cosa abbiano davvero bisogno.
Questi personaggi diventano facce diverse di uno stesso personaggio generalizzato e poco definito.
E anche questo contribuisce a sfumare i contorni di una narrazione che non riesce a emergere come dovrebbe.

Rimane tutto troppo immobile, in una superficiale illusione di movimento.

Questa mancanza di esplorazione profonda dei personaggi contribuisce a generare una mancanza di conflitto “significativo” fra di loro. Cioè, magari possono anche esserci dei momenti di contrapposizione fra i personaggi, ma non avranno mai un’incidenza concreta, e quindi non sarà pregna di un valore utile alla storia. Infatti, quando due personaggi che non sappiano bene chi siano si incontrano, non siamo in grado di valutare come possano interagire e cosa potrebbe produrre il loro incontro perché, se i loro intenti sono simili (o appena dissimili), non c’è un “reale” scontro.

Se mettiamo in una stanza qualcuno che dice: “Le fragole mi piacciono di più ma non ho nulla in contrario nei confronti dei lamponi”; e un altro che dice: “I lamponi mi piacciono di più ma non ho nulla in contrario nei confronti delle fragole”; il conflitto non esiste.
E tutto perde di interesse.

Se però metto nella stessa stanza una persona che ama follemente le fragole e una che ne è allergica, la cosa cambia. Specialmente se le due persone sono chiuse dentro, e la ciotola di fragole è l’unico modo che hanno per sostentarsi. O se è la chiave per uscire da lì, perché una delle due persone deve morire.

La creazione di un CONFLITTO tangibile – e possibilmente anche legato al TEMA della storia – ci permette di impalcare la proiezione di uno sviluppo di eventi. Ma non solo, ci permette di creare un reticolo per esplorare le sfumature tematiche che permeano la storia.

Cosa sei disposto a fare a te stesso o a qualcun altro per salvarti?
È moralmente giusto?
La persona che hai davanti vale più di quanto pensi di valere tu?
Sei disposto a batterti pur sapendo di essere in svantaggio?
Chi ti aspetta fuori dalla stanza?
È in pericolo?
Lo sarebbe se tu non uscissi più?

Magari può sembrare esagerato, lo capisco. Ma se ci si allena il più possibile a scavare dentro il mondo narrativo e dentro ai propri personaggi, non si può che trarne un grandissimo giovamento.

LA STORIA DOV’È?

Ok. Mega-spoilerone alert. Non che arrivati a questo punto abbia tanto senso, ma preferisco ribadirlo.
Questa di seguito è la trama in soldoni dell’intera novella. E mi serve per far capire dove manchino i conflitti, e perché ho affermato che manchi anche la storia.

Erinao porta i nomi della morte ascoltati nel vento. Dopo cento anni, la sua nomea lo precede in ogni terra. Quando Anuadana si appresta a fermarsi a Ekhaya, terra abitata da immortali, la sua nave viene bombardata. In realtà, stavolta Erinao non deve portare nessun nome, vuole rifornirsi per ripartire: sta tornando verso la propria terra lontana. La principessa Noemarya fa cessare l’attacco dei soldati e permette a Erinao di sbarcare. Lo scorta davanti al re e alla regina per omaggiarli, ed Erinao, in una brezza quasi inesistente, sente il nome della regina. Tre giorni dopo, la regina muore.
Il re sprofonda nel dolore e nell’odio contro Erinao e vuole vendicarsi.
Noemarya, che crede nella buona fede di Erinao, litiga con il padre e parte, innamorata e bandita dal regno, con l’uomo.
Il re ha perso una moglie e una figlia, ma non può dare ingiustamente la caccia a Erinao, così invita dei mediatori celesti, capaci di capire le intenzioni dell’animo di chiunque. In occasione del funerale della regina, li spedisce all’inseguimento di Erinao per poter avere la certezza, una volta per tutte, delle sue vere intenzioni. E quindi legittimare la sua eventuale vendetta.
I mediatori arrivano da Erinao, lo guardano negli occhi e… “Ok, sì, sei in buona fede. Non è colpa tua. Non l’hai fatto apposta.”
Una mediatrice in particolare, Enulyadel, dice ai due amanti che la sua presenza lì potrebbe rendere tangibile e concreto il destino che li unisce. Chiede loro se desiderano che ciò che è scritto si compia, e se sono pronti ad accettarne le conseguenze. Loro accettano, consci che hanno una marea di incognite davanti ma certi che è insieme che vogliono stare.
I mediatori tornano a Ekhaya a portare la notizia al re. Lui sbatte le ciglia e si rimette in bolla: “Ah, ok. Allora a posto così. Si vede che mi son sbagliato. Riaccetto Noemarya nel regno e anche Erinao è benvenuto.”
Noemarya va a parlare con il padre ma, mentre è via, Erinao sente i loro nomi nel vento e pensa che il re li abbia ingannati, e che nonostante il responso dei mediatori stia tramando per ucciderli, ancora accecato dal dolore.
Per un gioco di scambi Noemarya torna alla nave che Erinao è già venuto via per sfidare il re. Noemarya ritorna al castello per impedire che l’uomo che ama faccia sciocchezze, ora che è tutto risolto. Sul torrione, per impedire che Erinao e suo padre si uccidano a vicenda, interviene nella lotta e, mancando la presa sull’amato cade oltre il bordo e finisce nel vuoto.
Erinao, disperato, sa che non può vivere senza Noemarya e segue la donna nel vuoto.
Il re la prende sorprendentemente bene.
Le anime degli amanti, con il passaggio della morte, hanno la possibilità di lasciarsi alle spalle le zone di ombra delle loro anime e hanno la possibilità di riconoscersi e rincontrarsi ancora, in un’altra vita.
Molti, moltissimi, anni dopo Enulyadel incontra nel bosco due bambini che incarnano le anime, adesso pure, dei due amanti, e che sono finalmente libere di stare insieme come era giusto che fosse.

«Allora? Cosa c’è di sbagliato in questa novella? A me sembra che i conflitti ci siano.»

Diciamo che UNA PARTE dei conflitti ci sono davvero ma che non sono sufficienti, e sicuramente non sono impostati, strutturati e risolti in maniera adeguata.

C’è sicuramente un’impostazione di conflitto all’inizio della novella.

Il compito che Erinao assolve.
La sua nomea.
La diffidenza del re.
La morte della regina.
La colpa addossata.

Ci può stare.

Poi abbiamo un blocco di conflitti anche nella parte finale.

I nomi di Erinao e Noemarya sentiti nel vento.
Il gioco di tempistiche alla “Romeo e Giulietta” che non permette ai due amanti di chiarirsi.
La caduta di Noemarya dalla torre.
Lo sbaglio di valutazione di Erinao nei confronti del re.
La scelta di morire a sua volta.

Ci può stare anche questo. Anzi, diciamo che, di tutta la novella è la parte più convincente.
È rodata. William Shakespeare ne è la prova tangibile.

Ma, nel centro, tutta la risoluzione dei conflitti è una bolla di sapone.

È come un tiro alla corda senza resistenza dall’altra parte. Nei momenti in cui la tensione sale, e in cui ci si aspetta un confronto – una risoluzione, una difesa – questa ci viene negata a favore di una “resa” di una delle due parti.
E questo fa cadere la corda, e rende nullo il gioco.

Sì, è vero. È molto bello pensare che gli elfi siano così maturi da accettare la sconfitta di una realtà manifesta. Che a un mediatore basti guardare Erinao negli occhi per capire che è innocente. Che un re abbia la capacità di ammettere a cuor leggero di aver sbagliato.
Ma la parte successiva della storia si basa proprio sul fatto che Erinao, sentiti i nomi nel vento, NON creda alla buona fede del re.
E questo fa emergere il SUO lato-ombra.
Nel momento in cui rischia di perdere anche lui qualcuno che ama, anzi, nel momento in cui ha la “certezza” che perderà qualcuno che ama, persino lui, che è così “virtuoso”, cade nel tranello del dolore.

Allora, guardando meglio la struttura della storia, ci si rende conto che c’è uno sbilanciamento: il primo atto della storia non prepara adeguatamente lo sviluppo dei seguenti.

Ed è giusto ripartire a ritroso per capire cosa sia andato storto.

Sapendo che il risultato che vogliamo ottenere è quello dello sbaglio di interpretazione di intenti, e prendendo il CLIMAX come il luogo dove tutto deve convergere in virtù della “coesistenza di luce e ombra nell’animo”, dobbiamo SEMINARE questo tipo di concetto PRIMA perché poi possa essere RACCOLTO nel momento di tensione più alto.
Infatti, appena i due amanti perdono la vita, Enulyadel riappare e SPIEGA a tutti gli elfi presenti (e al lettore) l’esistenza di luce e ombra in ogni individuo e di come queste entità energetiche alla fine dei tempi si separeranno definitivamente.

Come per il passaggio del prologo visto prima, se l’autrice avesse usato le informazioni che aveva a disposizione in modo più organico ed efficace, quel monologo-spiegone non sarebbe stato necessario. Sarebbe stato inutile, esattamente come metterlo nella vicenda IN QUEL MODO risulta goffo e inelegante.

Arrivati alla fine della novella, capiamo che il nocciolo di tutto sta nel liberare le due anime dalla propria zona d’ombra per potersi riunire di nuovo, in un contesto in cui siano entrambe piene di luce e libere di amarsi in modo puro e duraturo.
Che quel momento di amore fugace è stato la “prova generale” del loro amore perpetuo. E che l’unico modo che Erinao aveva di essere “pronto” per quel momento era mettersi “dall’altra parte” del suo stesso dono e provare lo strazio di quel genere di perdita. In modo da confrontarsi con la sua zona d’ombra e scegliere di separarsene. Esattamente come fa.

Con questi presupposti, capiamo che manca un pezzo nella progettazione: manca il FATAL FLAW di Erinao, il suo difetto insito che lo porta a sbagliare.

Erinao doveva essere così assuefatto dal suo dono, da non vedere più – come legittimo – il dolore degli altri. Doveva essere concentrato così tanto sul suo compito da non “vederne” più le ripercussioni. Doveva impugnare il suo dono come una storta di “diritto celeste” con cui giustificarsi, ma non in maniera prepotente. Semplicemente come un dato di fatto “celeste” e divino. Non era colpa sua se gli spiriti lo avevano insignito di questo compito. Non poteva farci nulla perché quella era la realtà dei fatti. E doveva essere la reazione di Linelda, la madre del bambino, a indurlo a scegliere di chiudersi inconsciamente su quella posizione. Perché quell’esperienza doveva essere stata troppo straziante per lui, per poter essere compatibile con un atteggiamento emotivo diverso.
Essere nel diritto ONESTO di fare qualcosa, lo avrebbe comunque messo in una posizione emotiva scomoda.

Era dopo anni di “servizio” che Erinao doveva sembrare freddo, chirurgico e soprattutto SERENO perché “abituato” alla legittimità del suo compito. Non prima.
Avremmo dovuto “percepirlo” più nettamente questo cambiamento. Avremmo dovuto avere accesso ai suoi pensieri in merito. Avremmo dovuto vedere la sua logica rassegnata agli eventi, e magari anche le motivazioni addotte al compito che gli era stato assegnato. Avremmo dovuto avere accesso al suo sistema di valori, e alle ragioni che si adduceva per compiere bene il proprio compito, nonostante la reticenza all’accettazione manifestata da coloro a cui portava i nomi.

Avrebbe dovuto essere lui quello che ci parlava di luce e ombra, di scopo celeste, di ritrovarsi liberi da fardelli oscuri; che arringava con esperienza sulla LOGICA del suo compito, “dimenticando” o “sminuendo” il fardello EMOTIVO.

E si sarebbe dovuto scontrare con un uomo che amava la sua regina a tal punto che la ragione sarebbe parsa insignificante rispetto al dolore provato.
Avremmo dovuto vederla “davvero” la devozione del re nei confronti della donna. Avremmo dovuto avere lo specchio di quello che Noemarya ed Erinao sarebbero diventati l’uno per l’altra.
Avremmo dovuto assaggiare le motivazioni che avrebbero distrutto il re alla morte della regina.
Avremmo dovuto sentire anche NOI, come fruitori, quel dolore. Avremmo dovuto capirlo; prenderlo come assodato e “naturale” da provare.
Nemmeno per una volta avrebbe dovuto sfiorarci l’idea che fosse forzato e/o posticcio.

Ok? Ci siamo?
Bene.

Questi due poli, tematicamente, dovevano incontrarsi/scontrarsi, ancora prima dello “scontro finale” avvenuto sulla torre.

Le nature dei personaggi avrebbero dovuto fronteggiarsi al riguardo in continuazione, in un’escalation di conflitto sempre più aspro, durante tutta la narrazione. L’esplorazione tematica avrebbe dovuto essere l’ossatura della trama; farci vedere e assaporare diverse angolazioni e variazioni sul tema, in modo da farci mettere in gioco la nostra idea personale sull’argomento. In modo da farci capire dove noi, come lettori, avremmo impostato il nostro giudizio in merito e dove si attestasse il FULCRO DEL BENE: quel punto di equilibrio che fa da spartiacque fra ciò che è legittimo (in quello specifico contesto narrativo) e ciò che non lo è. In modo che noi potessimo discernerlo chiaramente.

Rendendo concreto e tangibile lo scontro concettuale con il re, e mettendolo in scena a più riprese, Erinao sul climax avrebbe peccato “di dolore” a sua volta, e i ruoli si sarebbero invertiti. Il re ne sarebbe uscito in possesso di una nuova consapevolezza, Erinao, invece, in possesso di un “nuovo” (inaspettato e soverchiante) dolore capace di scardinare tutta l’impalcatura della sua logica: un’emozione che non provava da tempo e che non riusciva più a comprendere. A quel punto, il protagonista avrebbe affrontato il suo momento di CRISI. Avrebbe attraversato lo stesso mare di oblio in cui era caduto il re dopo la perdita della regina e avrebbe dovuto scegliere fra il coraggio di vivere nonostante la perdita o arrendersi all’evidenza di non riuscirci, per sperare di fare un passo successivo, nella speranza di vedere la propria amata altrove.
In qualche modo, perdendo – sconfitto più nell’animo che nel corpo – avrebbe trovato la sua rivincita “altrove”. In un altro momento lontano nel tempo.
Libero di un fardello oscuro che non è più costretto a portare, e libero di amarla nella purezza che lei merita e che già le apparteneva.

Questo fa sorgere anche un altro problema: il TEMPO. Inteso come respiro della narrazione. Come spazio necessario agli eventi.

Noemarya non ha alcun “motivo” di innamorarsi di Erinao, se non quello di un’infatuazione “visiva”.
E, se vogliamo che questa storia funzioni, questo non può essere possibile. E neanche lontanamente sufficiente.
Abbiamo bisogno che il loro amore abbia basi solide, che abbia il sapore del “riconoscimento reciproco” inteso come la possibilità di due anime affini di ritrovarsi a ogni rinascita.
Come se i due venissero già da un passato comune, di cui non hanno memoria, ma che comunque tenta di spingerli a incontrarsi, ancora e ancora, di vita in vita. Che li rende quasi magnetici a vicenda.
Avremmo dovuto già avere Noemarya nella sua purezza; avremmo dovuto capirne l’entità e la portata. E avremmo dovuto poi comprendere che lei era libera dalla sua zona d’ombra mentre Erinao, nonostante la sua placida sicurezza, ancora no.
In più, avremmo dovuto vedere Noemarya nel suo ambiente, con il suo popolo. Avremmo dovuto percepire quanto ci si prodigava e che valenza aveva per loro.
E avremmo dovuto comprendere cosa il re aveva paura di perdere, anche riguardo a sua figlia.

Erinao, avrebbe dovuto stare a Ekhaya per molto più tempo, e avrebbe dovuto dare il nome della regina dopo una permanenza più lunga. Lunga a sufficienza da guadagnarsi l’amore di Noemarya nonostante ciò che è, e lunga a sufficienza da guadagnarsi la fiducia del re.
In modo che, una volta ricevuto dal vento il nome della regina, il re lo avrebbe dovuto percepire come un “tradimento” nei suoi confronti: il modo di Erinao di portargli via in un colpo solo gli amori più grandi della sua vita.
A quel punto avremmo capito che la partenza di Noemarya rappresentava una perdita affettiva sia per il re che per il suo regno stesso, e che lei avrebbe messo l’amore per Erinao davanti alla devozione per il suo popolo.
Così, il litigio fra il re e Noemarya avrebbe avuto più valenze stratificate, divise fra le responsabilità di un regno e quelle nei confronti di un amore vero. Che si sarebbero manifestate come inconciliabili – almeno all’inizio.

Oltre a questo, Noemarya avrebbe assolto la funzione del MENTORE per Erinao, insegnandogli di nuovo ad aprirsi ai propri sentimenti (fatto necessario per dare la possibilità a Erinao di comprendere la portata di cosa provino gli altri a ogni persona cara persa).

Ed Erinao avrebbe assolto il compito di “mentore” per il re, aprendo la porta all’evenienza futura dell’accettazione, all’imparare a lasciare andare.

In più, Enulyadel avrebbe giocato un ruolo fondamentale nel “mediare” fra questi due poli opposti. Avrebbe fatto da catalizzatore, elicitando il NEED dei personaggi – cioè ciò di cui avevano realmente bisogno il re ed Erinao:

  • avrebbe aiutato il re a capire che amare significa anche accettare che nulla è eterno, e che sia giusto vivere ogni momento finché è possibile, per tutto il tempo che ci è concesso;
  • avrebbe aiutato Erinao, spingendolo su un sentiero in cui avrebbe dovuto per forza trovarsi di fronte al dolore.

In una versione “rivista”, si sarebbe potuta trovare davanti a un Erinao innocente e gli avrebbe potuto comunque dire, con un velo di consapevole tristezza, che, nonostante le sue intenzioni fossero giuste, il suo viaggio emotivo non era ancora compiuto, e che non si apprezza mai davvero ciò che si ha se non si perde mai nulla. Per dire.
E avrebbe aiutato il re a comprendere che nonostante il dolore causato dalla sua perdita, quello che non può permettersi di fare è dimenticare il buono che c’è stato nell’amore che ha vissuto. Che deve imparare a lasciare andare.

Insomma, nella loro PROVA CENTRALE, entrambi avrebbero avuto una “finta vittoria” a metà storia, divisa fra la legittimità di ciò che si è conquistato e quello che si è perso – o che si sta per perdere.

Quei momenti avrebbero avuto una valenza diversa. Più densa ed emotiva. Concreta e dolorosa. Tangibile.

E, di sicuro, non avrebbe più avuto il gusto insipido di un “Ah, ok. Allora a posto così.”
Perché ci sarebbe stato un significato specifico e corposo anche in “quel” tipo di accettazione.

Così, il re, forte di una nuova consapevolezza avrebbe accettato davvero Erinao, ed Erinao indebolito dalla paura di perdere Noemarya non avrebbe creduto alla bontà d’animo del re. (Magari perché ci è stato suggerito, dagli eventi della narrazione, che il re, in determinate occasioni, sa anche essere un fine stratega, capace di giustificare i propri mezzi per un fine ritenuto “giusto”. Che fine più giusto può esserci, in un uomo che ha avuto una perdita importante per mano di un uomo che pensa l’abbia tradito, di non permettergli di portargli via anche la figlia che adora?)

Cominciate a vedere cosa è mancato, e tutta la gamma di ciò che avrebbe potuto esserci?
Ma soprattutto il perché mi dispiaccia che questa storia sia stata mal gestita e “sprecata” dandole una veste che non la calza bene?
Poteva avere accesso a un ventaglio emotivo ampissimo e le è stato negato.

C’è anche un’altra cosa che ritengo avrebbe giovato tantissimo a L’immortale che ascoltava il vento: un MONTAGGIO diverso.

Enulyadel fa da perno alla narrazione, perché diventa un elemento constante.
È lei che dice ai due amanti che può permettere loro di andare incontro al destino designato.
Ed è sempre lei che trova i due bambini che posseggono le anime nuove e pure dei due amanti.

Quindi, se la storia si fosse aperta su un prologo differente, avrebbe dato tutta un’altra importanza alle vicende dei due amanti e al significato che veicolano.
Mi spiego.

Siano in un bosco e seguiamo uno dei due bambini, magari quello che ha gli occhi d’argento.
Vediamo che incontra una bambina e vediamo che fanno amicizia. C’è feeling. Poi vediamo arrivare in scena Enulyadel che annuncia, sorridendo enigmatica: “È da tanto tempo che vi stavo cercando.”
E poi, senza farla sembrare una scena ma-chi-sei-cosa-vuoi-da-noi senza senso, avrebbe potuto iniziare a introdurre (anche se non necessariamente) l’idea che alcune anime sono destinate a ritrovarsi, e avrebbe potuto iniziare a raccontare la storia di Erinao ai bambini.

In questo modo avremmo assolto due compiti: avremmo seguito le vicende di Erinao attraverso una reale sensazione di “favola”; avremmo avuto un narratore esterno “giustificato” dall’utilizzare un “certo” tipo di linguaggio più “aulico”.

Anche se non ne avrei comunque abusato troppo.

Nel momento in cui Enulyadel stessa fosse entrata in scena nella storia riportata di Erinao, il lettore avrebbe detto: “Ehi! Ma quella l’ho già vista! È quella con i bambini…” e avrebbe cominciato a capire il collegamento fra le due storie, e il legame fra i bambini ed Erinao e Noemarya.
Ma, a quel punto, avrebbe anche voluto capire PERCHÉ i due amanti non hanno potuto stare insieme. E avrebbe continuato a leggere e seguire la storia, spinto da una consapevolezza diversa, e con un’IRONIA DRAMMATICA tesa verso la sensazione di qualcosa di incombente, capace di mandare all’aria un amore potente come il loro. E volta a voler conoscere ciò che potrebbe andare storto, per quale motivo, e in quali circostanze che ancora non ci è dato di sapere. La necessità di capire cosa sia.
Arrivati alla morte degli amanti, e compreso tutto il gioco di luce e ombra necessario legato al percorso di Erinao, avremmo maturato la speranza e il senso di compimento nei confronti dei bambini.
E saremmo stati sollevati nel sapere che adesso le due anime sono libere di amarsi come non hanno potuto fare in passato.

Enulyadel, tornata al presente dei bambini, attraverso la favola li avrebbe resi consci del destino che li lega (anche se magari, essendo bambini, non ne sarebbero stati completamente consapevoli) e avrebbe potuto chiudere la novella con un richiamo al fatto che saranno destinati a essere amici per sempre e a volersi bene. E che hanno acquisito anche la possibilità di far brillare le loro luci, grazie a coloro che sono riusciti a combattere le proprie ombre prima di loro.

Avremmo avuto un senso di appagamento differente.
Decisamente.

E il nocciolo di tutta l’analisi sta proprio nel CONDIZIONALE.

Avremmo potuto avere.
Avrebbe potuto essere.

E invece è.

L’immortale che ascoltava il vento è stato dato in pasto alla pubblicazione in uno stato che non gli ha reso giustizia.
Non è stato adeguatamente pensato e strutturato.
È stato mal gestito.
È stato sprecato.

Ed è assolutamente un peccato.

Soprattutto pensando a come, con alcuni accorgimenti ben mirati, avrebbe potuto fiorire davvero.

Non so a chi sia giusto addossare le responsabilità di questa effettiva resa. Io un’idea personale me la sono fatta, ma non ha senso esporla in questa sede.
Ciò che è certo è che, adesso, alla luce delle parole spese, l’autrice ha la possibilità di capire cosa sia andato storto.
E ha tutto il potere e le capacità di rimediare.

La sua storia glielo chiede.
Glielo sussurra nel vento.

Sarà capace di ascoltarla?

 

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#StrutturareUnaStoria   #Trama

#ProcioniImmortaliEfici  #Conflitto

#Montaggio   #MondoNarrativo   #TemaDellaStoria

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