CONFLITTO,  EMPATIA,  IMPARIAMO INSIEME ~ TECNICHE NARRATIVE,  MORALE,  PERSONAGGI,  SOSPENSIONE DEL GIUDIZIO,  UN PROCIONE AL GIORNO,  WHAT IF

CHE COS’È UNA STORIA?

È una domanda semplice, vero?
Ma siete proprio sicuri che lo sia?

Tutti tendenzialmente sappiamo cosa sia una storia, ma non è così semplice trovare una definizione che calzi adeguatamente.

«Io lo so! La storia è un insieme di avvenimenti che si susseguono, da un inizio a una fine!»

No. Non proprio.

Una storia è molto più di questo.
La storia è un organismo vivo, composto da una serie di organi che pulsano e si compenetrano, ma soprattutto è il racconto di un’esperienza di vita significativa.

«In che senso?»

Nel senso che non tutte le esperienze di vita hanno lo stesso valore. Alcune sono semplici “cose” che accadono e stop.

“Non mi metto a raccontare i momenti insulsi della mia vita” diceva Andrè Breton, e aveva ragione.

Ci sono cose che non vale la pena di raccontare, perché non suscitano alcun interesse in chi le fruisce. Generano un’attenzione superficiale che non arriva mai alla domanda: “E poi che succede?”.

«Ma perché? Com’è possibile? Eppure una storia è una storia.»

Oh, no. No, no, no.
Infatti esistono due tipi di PSEUDO-STORIE:

  • le NON-STORIE;
  • le IPER-STORIE.

Nel primo caso avremo un susseguirsi di avvenimenti tendenzialmente insignificanti che si concatenano a livello temporale e che hanno solo il risultano di annoiare, perché parlano di un personaggio che non sa bene chi sia, non sa bene cosa faccia, non ha qualcosa verso cui tendere. In pratica continua a muoversi senza andare mai da nessuna parte.

Nel secondo caso avremo un susseguirsi di avvenimenti ad alto tasso di effetti speciali: supercattivi, superarmi, superpoteri, superprocioni… ma che non riusciranno mai a coinvolgerci davvero.

«Come facciamo a riconoscerle?»

Un buon modo per farlo è prendere una scena della pseudo-storia e collocarla in un altro punto della sequenza temporale narrata. Se è indifferente che il protagonista vada prima dal medico e poi dal meccanico, o anche che scali prima l’Everest inseguito dagli squali e dopo fronteggi l’assalto di un convoglio di alieni in mutande, vuol dire che la storia ha qualcosa che non va.

In una vera storia, le scene possono stare solo nel posto in cui stanno.

Una buona storia è un imbuto: parte con una miriade di possibilità che poi man mano si restringono, fino a non averne quasi più sul finale. E non importa che parli di cose di tutti i giorni o di cose straordinarie, perché l’importante è che metta il personaggio davanti alla condizione di fare delle SCELTE.

«Ok, allora una storia piena di bivi… in pratica un labirinto.»

Ehm, no.
Non è l’immagine migliore per raffigurarla.

Perché le scelte non devono essere scelte qualunque, tipo scegliere la stracciatella o il pistacchio in gelateria.
Devono essere scelte che hanno effetto su chi è il personaggio nel suo intimo. Che lo mettano di fronte a bivi senza ritorno.
Ogni bivio lo piazzerà inevitabilmente su un sentiero specifico e ogni scelta andrà a punzecchiare quello spazio flessibile che sta fra ciò che il personaggio desidera e ciò di cui ha più paura.
Dunque, il compito di chi scrive è produrre scelte e la TRAMA è lo strumento che lo scrittore utilizza per obbligare il personaggio a farle.

«Perché questo è importante?»

Perché sviluppa la seconda domanda fondamentale: “Io cosa farei al suo posto, in quella situazione?”.

Titillare il personaggio sui suoi nervi scoperti lo mette in condizione di confrontarsi con il suo codice morale; con chi sia veramente.

Lo porto al limite perché voglio far emergere chi è davvero.

E questo si ripercuote anche su chi fruisce gli avvenimenti.
Infatti, ogni storia è veramente interessante perché ci mette di fronte a chi siamo.
Perché nessuno è capace di sapere chi è facendo ragionamenti astratti; ma è solo davanti ai fatti che riesce a scoprirlo.
Scrivere una storia è SEMPRE parlare di qualcosa attraverso qualcos’altro; che sia ironica, scanzonata, terrificante, sognante, inquietante, non fa differenza. Le buone storie parlano sempre di qualcosa di serio, anche inconsapevolmente.

Per questo bisogna essere onesti, e bisogna far fluire attraverso le parole l’acqua più intima che sgorga dal nostro io.

“Alla scrittura si va nudi e inermi come neonati. Se abbiamo qualcosa da dire, entrerà comunque nelle nostre storie. E se non ce l’abbiamo, avremo comunque scritto una storia onesta” dice Fabio Bonifacci.

Il lettore è un segugio. Si accorge in un nanosecondo se lo state prendendo in giro, se gli state indorando la pillola, o se scrivete cose a cui non credete davvero, così, tanto per.
Perciò, attenzione.

«Ma come si muove una storia?»

Chi ha detto “con le gambe”? Eh? Chi è stato?
Pazienza.

Ok. Abbiamo accennato che è un organismo. E quindi sarà composta da organi.

Sì, è così. Avrà una STRUTTURA specifica che le darà una connotazione precisa e sarà composta da elementi imprescindibili.

Se proprio volete insistere con questa faccenda delle gambe, potremmo dire che quelle dei personaggi non sono sufficienti: spingerli a destra e a manca non basta.

Per dare gambe alla nostra storia, servono OBIETTIVO, POSTA IN GIOCO e CONFLITTO.

Abbiamo detto che i personaggi si muovono in una direzione precisa tendendo verso qualcosa che desiderano e fuggendo da qualcosa che li terrorizza; abbiamo detto che abbiamo una trama che li mette in condizione di fare delle scelte importanti perché va a disturbare entrambi quei “qualcosa”, così da darci la misura di quello che farebbero per ottenere ciò che vogliono (e di cambiare adeguatamente per farlo)… ma va anche detto che non esiste una storia senza conflitto.

E non sto parlando degli scontri a fuoco con gli alieni mutandati di prima, anche se nessuno è contrario alla loro presenza.

È quel ché di implicito nello stuzzicare la zona di vulnerabilità del personaggio, e che poi innesca la necessità di fare delle scelte.

Perché tutto parte dalla negazione di “qualcosa”. Da un ostacolo che si pone nel percorso del personaggio: un EVENTO SCATENANTE che decreti l’inizio della storia e che costringerà il personaggio a muoversi se non vuole “perdere” ciò che ha, o che vorrebbe avere.

“Mamma, mi mandi al concerto?”
“Sì”.

Fine della storia.
(A meno che il percorso per arrivare al concerto non diventi il vero ostacolo successivamente).

E così?

“Mamma, mi mandi al concerto?”
“Te lo puoi scordare”.

Riuscite a immaginare cosa potrebbe fare per andarci comunque?
Vi lascio sguinzagliare l’immaginazione.

No conflitto, no storia. E questo immagino che sia chiaro.

«Ma che tipo di conflitto?»

Il CONFLITTO ha sempre tre facce:

  • interna, cioè come il DIFETTO FATALE del personaggio (quella zona di vulnerabilità che ha) lo porti sempre a fallire;
  • esterna, cioè come il dipanarsi della TRAMA gli metta i bastoni fra le ruote;
  • di relazione, cioè come il suo difetto si ripercuota su quelli che gli stanno intorno.

Il conflitto del personaggio deve essere tridimensionale per essere recepito come concreto.

(BONUS: in una storia costruita a regola d’arte l’escalation del conflitto dovrebbe essere legata alle conseguenze dirette delle scelte fatte dal nostro personaggio.)

Ed è fondamentale, non solo perché fa muovere la storia, ma perché ci permette di provare EMPATIA (sì, questo è un altro organo), innescando quel meccanismo che ci porta a pensare a noi in relazione a lui e alle sue scelte.
Ma, soprattutto, a tifare per lui, perché se lui vince, anche noi vinciamo di conseguenza. Anche se non è detto che un personaggio debba per forza vincere, per farci trovare davanti a una bella storia.

L’EMPATIA ci mette in relazione con la SCALA DI VALORI del personaggio. Che non necessariamente è uguale alla nostra.
Il personaggio si muove e sceglie attingendo alla propria MORALE, che può essere diametralmente opposta alla nostra, ma che noi siamo disposti ad accettare come valida se le sue scelte sono in linea con quella che è la SUA morale intrinseca.

Mi spiego: l’omicidio è sicuramente una cosa brutta, universalmente condannata, ma se, in una storia, una madre è costretta a uccidere per salvare il proprio figlio, il nostro cervello è disposto ad accettare che faccia una cosa moralmente ingiusta in un altro contesto per seguire una scelta che è moralmente giusta nella sua condizione.

Questo meccanismo è chiamato: SOSPENSIONE DEL GIUDIZIO MORALE. Che poi è anche ciò che ci permette di farci piacere i personaggi cattivi…

In una storia siamo più tolleranti con certe cose purché ci rendiamo conto che a monte c’è una motivazione concreta e potente.

«Ok, ma perché il personaggio dovrebbe muoversi?»

Già. Perché?

Abbiamo un EVENTO SCATENANTE che si manifesta come CONFLITTO, giusto? Ma cosa va a colpire?

Si abbatte su ciò che ruota intorno al concetto di OBIETTIVO e POSTA IN GIOCO.

Per capire cosa siano: l’OBIETTIVO è ciò verso cui il personaggio tende, mentre la POSTA IN GIOCO è ciò che il personaggio rischia di perdere. Va da sé che sono strettamente legati fra loro, ma anche che non possono essere le stesse cose per tutti, e/o per tutte le storie.

Così, ci appoggiamo alla GERARCHIA DEI BISOGNI di Abraham Maslow, che nel 1954 ci ha dato una traccia utilissima (successivamente ampliata nel 1962) per capire a grandi linee le priorità psicofisiologiche che governano l’essere umano.
(E che lo spingono a soddisfarle per sentirsi appagato.)

Eccallà!

Non vogliamo fare un trattato sulla psicologia umana, non ne ho assolutamente le competenze, ma questa piramide cognitiva ci dà uno schema concreto, su otto livelli, sul quale ci possiamo muovere per comprendere le necessità del nostro personaggio. Se pensate che sia una sciocchezza, sappiate che moltissimi brand a cui vi sentite legati fanno leva proprio su questi meccanismi interiori per spingervi a comprare i loro prodotti.
Giusto per dire.

Cooooomunque, alla base della piramide si parte da bisogni elementari, legati alla sopravvivenza, fino ad arrivare a bisogni più complessi e di carattere sociale e spirituale.

Chiaramente, l’individuo si muove in modo progressivo su questa piramide, soddisfacendo prima quei bisogni che stanno nei livelli più bassi per poi passare a quelli più alti. Anche se non è uno schema così fisso, soprattutto nella parte che riguarda l’aspetto di realizzazione sociale.

Vediamo quali sono:

  • 1 – BISOGNI FISIOLOGICI

I bisogni connessi alla sopravvivenza fisica dell’individuo sono i primi a dover essere soddisfatti in base al principio di conservazione: respiro, fame, sete, sonno, termoregolazione.

  • 2 – BISOGNI DI SICUREZZA

Sicurezze che devono garantire all’individuo uno stato di protezione e tranquillità: di salute, di occupazione, di proprietà, familiare, morale e di soppressione di preoccupazioni e ansie.

  • 3 – BISOGNI DI APPARTENENZA

Queste sono le aspirazioni a essere un elemento della comunità: essere amato e amare, avere degli amici, cooperare, partecipare, avere intimità sessuale. Sono i bisogni di identificazione all’interno di un gruppo sociale.

  • 4 – BISOGNI DI STIMA E AUTOSTIMA

Tutto ciò che permette all’individuo di sentirsi competente e produttivo: essere rispettato, approvato, riconosciuto nello sforzo compiuto.

  • 5 – BISOGNI DI SAPERE E CAPIRE

Quegli aspetti che danno la spinta ad acquisire conoscenza approfondita di sé stessi e del mondo.

  • 6 – BISOGNI DI CREARE E DI ESTETICA

Usare il proprio talento e il proprio sapere per creare (e circondarsi di) qualcosa di bello. I bisogni creativi hanno a che fare con la percezione sensoriale del mondo che circonda l’individuo e col proporre qualcosa di aderente alla propria visione.

  • 7 – BISOGNI DI CONCRETIZZARE

Questi riguardano la necessità di mettere a fuoco la propria missione di vita e di impegnarsi per realizzarla.

  • 8 – BISOGNI DI TRASCENDENZA

Questa è la cima della piramide: acquisire una consapevolezza talmente alta da aspirare a diventare una parte integrata, e di valore, nel mondo. Essere così presenti nel qui e ora da dissolvercisi dentro.

Salutiamo tutti Johnny Depp.

«Ciaaaaao Johnny.»

Scemenze a parte, è chiaro che nessuno penserà a trascendersi se non ha da mangiare; anche se qualcun altro potrebbe ritenere l’acquisizione della conoscenza più importante dell’avere degli affetti a fianco. Però dobbiamo ragionare su cosa è importante per il nostro personaggio e cosa è disposto a fare per non perdere ciò che ha, o per ottenere ciò che vorrebbe. Anche in termini di assegnazione di un peso concreto a queste necessità, cioè quanto inficiano nella sua scala di priorità.

Perché, ciliegina sulla torta, una buona storia metterà in campo almeno un ANTAGONISTA che proverà ad avere la stessa cosa che vuole il nostro personaggio (o quello che ha già), o che vorrà instaurare proprio l’esatto opposto di ciò che lui desidera. E noi dovremmo sapere fino a che punto il nostro personaggio è disposto a mettersi in gioco. Perché potrebbe arrivare anche a doversi giocare la vita, e noi dovremmo sapere che valore gli attribuisce.

Vogliamo fare un esempio comprensibile attingendo a una storia che conoscono più o meno tutti?  Facciamolo.

Prendiamo “1984” di George Orwell.

Winston Smith è il nostro protagonista, un uomo che chiaramente mette in discussione la società e le contraddizioni sociali e relazionali in cui vive. L’ANTAGONISTA, in questo caso, è il regime: vuole un controllo assoluto sulle persone che governa, e opera una stringente sorveglianza per riuscire a soffocare anche solo il pensiero che possa esserci un’alternativa concreta.

Qual è l’OBIETTIVO  di Winston? Facile: è “essere libero”.

Qual è la POSTA IN GIOCO? Beh, Winston si gioca a tutti gli effetti la “propria individualità”.

Fino a che punto è disposto a spingersi lo scoprite fra le pagine, ma il nocciolo della storia è questo.

Ci siamo? Ok.

Come dite?

Qualcuno vi ha detto che non esiste una bella storia senza un TEMA, o un MESSAGGIO IMPORTANTE, che dir si voglia?
Quello che possiamo dire è che è vero.

E sì, in “1984″ si percepisce in modo tangibile che il MESSAGGIO racchiuso nella vicenda di Winston Smith allunga le sue propaggini verso l’esterno, per arrampicarsi fuori dalle pagine e sedimentarsi nella mente di chi legge. Anche se questo comporterà stenderci un velo di grigio per giorni, come se tutta la bellezza del mondo fosse stata appiattita e svenduta.

Il TEMA è davvero un concetto sfuggente e sul quale tutti quanti ci tengono molto a dire la propria. Diciamo che se abbiamo una storia VERA, con molta probabilità avremo un tema al suo interno. Di fatto, è quel nocciolo che abita l’area di pericolo del nostro personaggio: il suo più grosso problema da affrontare, quel “qualcosa” che deve imparare a gestire e che fa da perno a tutto il teatrino messo in piedi.

Ci sono diversi modi di farlo emergere e sono tutti giusti.

Il primo richiede un autore consapevole, che si metta alla scrivania e pensi: “vorrei parlare della solitudine del non essere compresi”. E che si prodigherà a ragionare su cosa mettere in scena per evocare in maniera convincente cosa comporti il fatto che il suo personaggio non abbia la possibilità di esprimersi per ciò che è, anche vicino a coloro a cui vuole bene. Per dire.

Magari potrebbe essere dovuto a un trauma che non gli permette più di muoversi e parlare, oppure essere dovuto a mille altre ragioni; e l’autore sceglierà quella che ritiene più efficace e opportuna a veicolare ciò che vuole. C’è un trappolone che è nascosto dietro l’angolo, però: spesso, se ti concentri TROPPO su quello che vuoi dire, potresti dimenticarti che ci sono delle emozioni da far emergere…

Ma come si suol dire: “Uomo avvisato, mezzo salvato”.

Un altro modo in cui si potrebbe far nascere il TEMA è partire da un semplice “E se…”.

E se fossi muto?

E se un bambino fosse bloccato dentro un supermercato di notte e fuori ci fosse una tormenta?

E se gli alieni attaccassero la Terra, a Palermo invece che a New York (una volta tanto), magari al tempo dei Greci?

Questo genere di situazione porterebbe un autore a dover pensare a tutto il corollario di informazioni già viste e a definire implicitamente anche di COSA parli davvero la storia. Più o meno, questo è l’approccio utilizzato da Stephen King, e spiegato nel suo “On Writing“. Partire da un’istantanea, un frammento di realtà, e poi ricamarci adeguatamente intorno.

Inutile dire che anche qui bisogna essere molto bravi, per farlo bene. Ma vale la pena di dire che potrebbe essere più semplice avere già a che fare con un brandello emotivo che preme per uscire, perché magari alcune di quelle situazioni già portano in sé un groviglio di sensazioni che l’autore gli ha associato implicitamente.

Qualcun altro, persino, si accorge di avere un TEMA solo dopo che la storia l’ha conclusa.

Sì, dopo aver assecondato la richiesta dei propri personaggi che bramavano la vita, dopo aver costruito un mondo specifico, con una specifica connotazione e uno specifico rumore che lo contraddistingue, e dopo averci inzuppato le braccia dentro fino alle spalle per ficcarci la testa dentro e vedere con i propri occhi.

Il punto è che non è importante come ci arriviate. Sappiate che con molta probabilità ci sarà. E che vi permetterà di riassumere la vostra intera storia in una singola frase.

E anche se non ci fosse, se avete tenuto conto di tutto quello che ho scritto, di sicuro avrete una storia onesta che si manifesta per ciò che è.

E non mi sembra affatto poco.

Dunque, pensateci bene: avete scritto “davvero” una storia?

#ImpariamoInsieme

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#storia

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