ANALISI DEL TESTO,  AUTORE IMPLICITO,  CODICI DI LANCIO ~ DEMOLIZIONE E RISTRUTTURAZIONE STORIE,  CONFLITTO,  CORRELATIVO OGGETTIVO,  CREAZIONE DEL MONDO NARRATIVO,  DETTAGLI E INFORMAZIONI,  DIALOGHI,  DISTANZA EMOTIVA,  EMPATIA,  IMPARIAMO INSIEME ~ TECNICHE NARRATIVE,  INCLUING,  INFODUMP,  MECCANISMI NARRATIVI,  MOSTRARE,  NARRATORE E NARRAZIONE,  NARRATORE INAFFIDABILE,  NARRATORE INVADENTE,  NARRATORE ONNISCIENTE,  NON-RECENSIONI,  OBIETTIVO,  PARATESTI,  PUNTO DI VISTA,  SCENE,  SCRIVERE MEGLIO,  WORLDBUILDING

COME RADDRIZZARE UN TORTO

Non-Recensione del racconto Il torto di Andrea Venturo.

Bene, bene, bene.
Da dove iniziamo?
Conviene strappare il cerotto velocemente: questo racconto ha diversi problemi. Ma molti di essi derivano dall’applicazione errata di concetti giusti.
E questa è un’ottima cosa, perché mi permette di affrontare alcuni argomenti che non avevo ancora affrontato, e anche perché – con molta probabilità – se giustamente indirizzato, l’autore sarà in grado di sistemare da sé gli errori.

Ma prima, un po’ di contesto.
Il torto è un racconto high fantasy, o epic fantasy se preferite, che getta le premesse e fa da apripista alle avventure di Conrad: un intrepido ragazzino di dodici anni.

L’intento del racconto è chiaro: riuscire a generare interesse nei confronti del mondo narrativo in questione, e verso Conrad, al punto di voler leggere ciò che lo aspetta in seguito.
Una sorta di antipasto gratuito, un assaggio per poi scegliere di godersi il resto del pasto.

Nobile scelta, ma non priva di conseguenze.

Credo che, di base, sia un buon intento. In questo modo i lettori possono capire il tenore di ciò che troveranno nella storia, o nelle storie successive, e non compreranno un prodotto completamente a scatola chiusa per poi eventualmente pentirsene.

È un meccanismo intelligente, specialmente per un autore emergente, che non può avere dalla sua parte la “fiducia” della notorietà.
Così, ci viene concesso di dare una sbirciatina con i nostri occhi, e poi scegliamo se oltrepassare la soglia consapevolmente.
Nessun rimorso, nessun rimpianto. Come diceva Max Pezzali.

Ovviamente, se questa scelta è lodevole da una parte, è comunque un trappolone micidiale.
Se l’assaggio non è di proprio gradimento, o non è all’altezza delle aspettative, è un biglietto da visita che si può ritorcere contro l’autore.
Voglio dire, apprezzo davvero l’onestà dell’intento, ma se utilizzato a sproposito può chiudere la possibilità di “essere letti” sia in questa storia, sia in tutte le altre. Quindi il suo impiego va valutato attentamente.

E questo vale per ogni meccanismo simile a questo: se offrite un assaggio deve essere “il meglio del meglio del meglio”.

(Oggi sono in vena di citazioni…)

Non voglio dissuadere dal farlo, anzi. Assicuratevi che la qualità sia tale da far rimanere la fame nei confronti del resto che avrete da proporre.

Quindi, la domanda successiva è quella più importante:
«Il torto mi invoglia a proseguire la lettura?»

No.

«Comprerei i libri successivi per leggere di Conrad e dei personaggi che sono stati presentati? O più ampiamente darei fiducia alla scrittura dell’autore?»

No. Non ora. Non con questi presupposti.

E questo è proprio un peccato perché dal racconto traspare quanto l’autore abbia studiato e si sia impegnato per scrivere con “certi” crismi.
Infatti, il testo è tendenzialmente formalmente corretto: non mi sono saltati all’occhio particolari refusi (anche se ci sono), o “gravi” oscenità. Non ci sono formattazioni mostruose che fanno storcere troppo il naso.
SEMBRA tutto piuttosto pulito, curato. Tendenzialmente accurato.

In più, c’è una ricca ricerca e una conoscenza profonda dei personaggi e delle ambientazioni in cui si muovono.

Purtroppo, però, questo processo si vede “fin troppo” – so che può sembrare un paradosso, ma l’eccesso di ricerca è un problema quanto la mancanza di ricerca, se non viene gestito adeguatamente.

Se si guarda la scrittura del racconto con occhi abbastanza distaccati e oggettivi si riesce a vedere il punto in cui l’intento ha preso una tangente che non avrebbe dovuto imboccare. Tanto da rendere il racconto fuori fuoco perché ha perso il vero scopo che avrebbe dovuto avere: incuriosire e affascinare.

Comunque, un passo alla volta.

Nell’articolo LA NARRAZIONE È SEDUZIONE avevamo parlato del PRINCIPIO DELL’ICEBERG: cioè di come gli autori, incamerando informazioni per rendere credibile una storia, alla fine restituiscano al lettore il 20% più significativo delle informazioni che hanno ricercato, scegliendo quelle più efficaci a veicolare ciò che era UTILE. (Su cosa sia utile ci vorrebbe un discorso a parte perché varia da storia a storia, ovviamente. Ma un assaggio potete averlo in questo articolo: DETTAGLI SÌ, DETTAGLI NO.)
Il resto del totale (l’80%) rimarrà sommerso ma si percepirà che c’è, e il lettore sarà in grado di comprendere tutto quello che gli serve da quel pregiato 20% di filetto di informazioni scelte, aggiungendoci del suo dal proprio bagaglio emotivo-cognitivo.

Benone.

Avevamo anche detto che il grande lato oscuro di questo meccanismo è l’INFODUMP: nel momento in cui l’autore non riesce a compiere una scelta efficace nei confronti delle informazioni che vanno inserite, rischia di essere talmente legato a ciò che ha approfondito da mettercene troppe e in malo modo. E questo va ad appesantire la narrazione (quando va bene) e a invalidare la fruizione della storia.

Da questo racconto si percepisce che Andrea Venturo ha una grande, grandissima, passione per la pianificazione e la costruzione del suo mondo narrativo. E questo è un bene per un autore fantasy.
Un pregio, finché non diventa un difetto.

Infatti, la chiave di ogni buona storia sta nell’EQUILIBRIO.

Come in cucina, è questione di bilanciare gli ingredienti nel modo giusto per creare una commistione di consistenze e sapori che corteggino il palato. Non si tratta solo di saziare la fame ma di sedurre un boccone alla volta.

Non voglio che si pensi che il lavoro di STRUTTURA e RICERCA sia un lavoro inutile. Anzi. Direi proprio che è la linfa di ogni buona storia.
Ma, qui, onestamente non è stata operata una scelta adeguata in relazione a ciò che era FUNZIONALE all’ECONOMIA DELLA STORIA.

Si è persa la “finalità” della ricerca effettuata. E quello è stato l’errore sorgente.

Sono presenti tantissimi elementi che, seppur perfettamente coerenti e consoni con il mondo in questione, possono essere tolti senza che la storia subisca alcun danno. O impoverimento.
Perché in questo caso non rappresentano una ricchezza per l’opera ma una zavorra che l’avrebbe fatta volare più in alto.

Ovviamente, questo problema se ne porta dietro molti altri.
Ma andiamo per gradi e vediamo se riesco a farvi capire cosa intendo.

Nel “making of” del film di animazione della Disney Alla ricerca di Nemo, ricreare un ambiente marino subacqueo credibile era una grande sfida. Sia in relazione all’aspetto “scenografico” del film, ma anche in relazione alle tecnologie digitali possedute dagli animatori in quel periodo.

Ogni volta che provavano a fare degli sfondi per ambientare le azioni dei personaggi, veniva sempre fuori una sorta di effetto “fondale di piscina gommoso”. Anonimo. Sterile. Inadeguato al contesto. Inefficace. Troppo “artificiale”.

«Forse non abbiamo la tecnologia necessaria per fare ciò di cui abbiamo bisogno.»
Dubbio legittimo.

Così, autori e produttori hanno chiesto agli animatori di prendere alcuni spezzoni di documentari e ricrearne una copia con gli strumenti che avevano a disposizione, per impostare chiaramente il livello di realismo che avrebbero potuto ottenere con la tecnologia con cui lavoravano.

Poi hanno affiancato i due filmati.
Il risultato era così realistico che non si riusciva a capire quale fosse l’originale e quale la copia digitale.

Quindi il problema non era la strumentazione.

Allora, hanno vagliato un’altra opzione:

«Non riusciamo a creare degli sfondi credibili perché non conosciamo bene la barriera corallina e il mare in generale.»

Così gli animatori sono stati portati a fare immersioni e a documentarsi facendo foto, oltre che a esperire in prima persona l’ambiente marino.

Questo ha fornito loro un campionario vasto e variegato di elementi da inserire nelle scene, ma non solo.
Ha fornito una gamma stratificata di elementi che concorrevano a creare l’effetto subacqueo finale:

  • L’acqua diventa più scura man mano che la profondità aumenta.
  • C’è del pulviscolo che fluttua, e che brilla quando viene colpito dalla luce.
  • La luce che viene da sopra attraversa la superficie ma riesce a bucare l’acqua fino a un certo punto prima che cominci a perdere d’efficacia.
  • La superficie dell’acqua crea dei riflessi che si muovono sugli scogli e sui fondali sommersi.
  • Alcuni raggi del sole riescono a entrare obliqui e a creare zone di luce molto simili a quelle che vediamo uscire dalle nuvole nelle giornate in cui il cielo è coperto.
  • Le alghe hanno il loro modo di fluttuare e hanno consistenze diverse.
  • I coralli sono di diversi tipi e si sviluppano sia in orizzontale che in verticale. Anche le rocce e la sabbia hanno grane e superfici diversificate.
  • I pesci muovono le pinne in modi differenti e hanno un modo di nuotare diverso gli uni dagli altri in base alla loro conformazione.
  • L’acqua non è sempre dello stesso colore.
    Sia in base alle ore del giorno, e quindi della luce che l’attraversa, ma anche in relazione all’ambiente in cui è situata:
    quella della barriera corallina è diversa da quella del porto di Sidney, o dall’acquario nello studio del dentista e via dicendo.

Insomma: sono tantissime variabili da gestire e non le ho messe neanche tutte.
Ma comprenderle a fondo permette di operare scelte stilistiche e poetiche, e di vagliare quali siano le combinazioni necessarie di volta in volta per ricreare gli ambienti in cui si spostano i vari personaggi.

Ok.

Ma rimaneva un altro grande quesito.
«Come combino questi elementi in modo che io non finisca a ricreare una copia realistica del mio documentario? Questo è un film di animazione per bambini. È questa la sua finalità.»

Ecco.

È lì il nocciolo della questione.

È lì che risiede la SINTESI in relazione all’OBIETTIVO che ci si pone.

L’obiettivo non era avere la mimesi della realtà.
L’obiettivo era la VEROSIMIGLIANZA e la CREDIBILITÀ, nell’ordine di una storia che rimaneva nella prateria del “fantastico”.

Quindi gli elementi sono stati dosati. Mantenendo una grana “cartoon” in un’ambientazione che ATTINGEVA dal reale per accogliere adeguatamente i personaggi. È questo tipo di scelta, insieme ad altre, che concorre a generare lo STILE di un’opera (e di un autore), di cui si tende a parlare un sacco (spesso a sproposito).

Le due variabili si sono fuse per incontrarsi al centro.

Dando un equilibrio stabile, credibile, apprezzabile. E in cui, in ogni scena, gli elementi contribuiscono a potenziare l’efficacia narrativa della storia che stiamo fruendo.

E, se questo procedimento è fatto adeguatamente, ce ne accorgiamo perché ai nostri occhi diventa “trasparente”.

Non che lo diventi davvero, ma quando il nostro cervello accetta una cosa come CREDIBILE e VEROSIMILE, sposta la sua attenzione su altro, facendolo diventare di CONTORNO.
Dando l’OK all’ambientazione, ci permette di concentrarci su quello che avviene nel PROSCENIO. Ci permette di guardare COSA facciano e cosa provino i personaggi che VIVONO lì. Perché adesso ci crede sul serio che ci vivano.

Tornando a Il torto, abbiamo una mole di ricerca degna di un documentario realistico. Abbiamo una strumentazione adeguata a darci un documentario realistico. Ma, dall’altra parte, abbiamo anche la concezione di una storia fantasy, con un bambino come protagonista.
E, purtroppo, il racconto non ha quella FRESCHEZZA che dovrebbe avere.
Si percepisce troppo che dietro alle pagine ci sia un autore che non ha affatto dodici anni. Ma nemmeno venticinque. (Non che l’età dell’autore sia un male di default, ma la maturità deve insegnare a fare scelte consone alla STORIA non adeguarsi all’AUTORE.)

Qualcosa non ha permesso che questi elementi trovassero un incastro perfetto fra di loro.

Quel “qualcosa” sono le scelte operate dall’autore in merito alla sintesi fra RICERCA, STRUTTURA e STORIA.

Sia nei confronti della selezione delle informazioni, ma anche nella scelta della VOCE con cui inserirle, e nella gestione dell’inserimento delle stesse all’interno della narrazione.
L’AUTORE IMPLICITO e il NARRATORE creati e scelti non sono adeguati alla storia che è stata raccontata.

Facciamo qualche esempio.

INFODUMP: QUESTE INFORMAZIONI SERVONO DAVVERO?

La storia si apre così: con il racconto di ciò che è avvenuto a una compagnia errante di quattro prodi guerrieri/maghi, 400 anni prima che la storia di Conrad avesse inizio.

Nadear la Bianca: case in malta e pietre a secco, dai tetti di tegole rosse.
Nadear la Bianca: una stretta manciata di viuzze lastricate in pietra, cavata dalle sponde del lago su cui si specchia, che si era tinto di rosso durante la battaglia di Levot, quando Uruk il Possente e i suoi quattromila orchi guerrieri avevano cinto d’assedio la città.
Nadear la Bianca: un cerchio robusto di mura candide, protette a loro volta da folte macchie di ginepro e rovi. Rovi disposti ad arte, per convogliare le truppe assedianti nei punti più congeniali ai difensori, che possono colpirle con frecce e verrette, scariche di mitraglia e olio bollente, per poi lasciare che le micidiali colonie di rose-vampiro, arbusti arcieri e viticci strangolatori celati all’interno dei cespugli completino il lavoro.
Tutto questo può sembrare pericoloso? Certo che lo è! Ho forse detto che Nadear la Bianca sorge in un luogo tranquillo?
Forse entro le sue mura si può godere di una relativa sicurezza, ma fuori di esse vita e morte si scontrano senza sosta in un duello dall’esito incerto sino alla fine.
Molto lontano dalle mura di Nadear, verso nord, si apre una vasta pianura rocciosa, sterile e ancor più pericolosa: le Brulle. Essa separa i Principati di Malichar dal resto delle terre conosciute.
Quattro amici stanno attraversando questa terra selvaggia e aspra, diretti a sud dopo una lunga e infruttuosa ricerca nei Principati.
I loro nomi, dopo la sconfitta di Uruk il Possente, sono leggenda: Flantius Mijosot detto Colle Ondoso, Robaln Steinherz il Nano,
Lantharas il mezz’elfo e Tharn l’invitto. Il loro viaggio sta per concludersi, ma ancora non lo sanno.

Questa è la prima pagina del racconto. E la frase veramente utile di tutta questa pagina è l’ultima.

Il loro viaggio sta per concludersi, ma ancora non lo sanno.

Che tra l’altro è un’anticipazione che, insieme ad altri dettagli già emersi fino a qui, ci mette di fronte al fatto inequivocabile che il NARRATORE è ONNISCIENTE. (Anche INVADENTE, ma ci torniamo.)

Ok.
«Cosa c’è di storto in questo incipit? In fin dei conti, nella prima pagina ci sta dando l’idea di dove siamo, di quale sia il narratore, di chi stiamo seguendo e del fatto che accadrà loro qualcosa… no?»

Bene, spezzettiamo tutto.

Nadear la Bianca: case in malta e pietre a secco, dai tetti di tegole rosse.
Nadear la Bianca: una stretta manciata di viuzze lastricate in pietra, cavata dalle sponde del lago su cui si specchia, che si era tinto di rosso durante la battaglia di Levot, quando Uruk il Possente e i suoi quattromila orchi guerrieri avevano cinto d’assedio la città.
Nadear la Bianca: un cerchio robusto di mura candide, protette a loro volta da folte macchie di ginepro e rovi. Rovi disposti ad arte, per convogliare le truppe assedianti nei punti più congeniali ai difensori, che possono colpirle con frecce e verrette, scariche di mitraglia e olio bollente, per poi lasciare che le micidiali colonie di rose-vampiro, arbusti arcieri e viticci strangolatori celati all’interno dei cespugli completino il lavoro.
Tutto questo può sembrare pericoloso? Certo che lo è! Ho forse detto che Nadear la Bianca sorge in un luogo tranquillo?
Forse entro le sue mura si può godere di una relativa sicurezza, ma fuori di esse vita e morte si scontrano senza sosta in un duello dall’esito incerto sino alla fine.
Molto lontano dalle mura di Nadear, verso nord, si apre una vasta pianura rocciosa, sterile e ancor più pericolosa: le Brulle.

Queste sono le prime 200 parole del racconto.
Tutte quante ci parlano di Nadear la Bianca. Ma il primo punto, e quello più importante, è che noi a Nadear la Bianca, in questo racconto, non ci metteremo mai piede. Mai. Neanche una volta. Neanche lontanamente.

Quindi, perché si è scelto di cominciare così?

Certo, si può dire che Nadear la Bianca è il simbolo oggettivo del tipo di mondo in cui ci stiamo calando, che ci dà chiaramente l’idea del fatto che al di fuori di essa il terreno è pericoloso e “vita e morte si scontrano senza sosta in un duello dall’esito incerto sino alla fine”… ma no.

Questo pezzo non serve. In alcun modo. E le informazioni che ci vengono date ci vengono fornite in modo passivo. In un resoconto del narratore che, non solo è ONNISCIENTE, ma è anche INVADENTE. E lo capiamo da questa frase:

Tutto questo può sembrare pericoloso? Certo che lo è! Ho forse detto che Nadear la Bianca sorge in un luogo tranquillo?

Qui, è il narratore che si mette in mezzo al palco e ci dice che oltre al lettore, e oltre ai personaggi, c’è anche lui. E che vuole avere la sua importanza.

«E cosa c’è di sbagliato in questo?»

Tendenzialmente nulla, se abbiamo i presupposti giusti perché questo avvenga. E qui potremmo anche averli – se mischiassimo un po’ le carte in tavola.

Invece, nello stato attuale delle cose, va ad accentuare il fatto che stiamo in una posizione distaccata rispetto alle vicende della storia e che, come lettori-spettatori, non siamo neanche in prima fila perché prima di arrivare al cuore della storia dobbiamo scavalcare anche il narratore.
Infatti, non è seduto dietro di noi a sussurrarci nell’orecchio quello che stiamo vedendo; ci sta davanti e ci copre la visuale parlando sulla storia e mettendoci una mano sul petto per non farci avvicinare troppo.
Ci tiene a DISTANZA EMOTIVA dalla storia, per creare una vicinanza emotiva con lui.

Ma noi non siamo qui per il NARRATORE. Noi entriamo nella storia per la STORIA.

Quindi, questa è la prima vera trappolona. Il NARRATORE ONNISCIENTE ci sta RACCONTANDO troppo e da una posizione che non è FUNZIONALE alla storia. Inserendo anche informazioni che NON ci servono.

Tornando a Nadear la Bianca, se non ci serve, perché si è scelto di iniziare così?

Sarà presente nel prossimo libro?
Non è un buon motivo.

Per parlare di Uruk il Possente perché i nostri quattro amici che stiamo seguendo lo hanno sconfitto e quindi sono valorosi?
Neanche questo è un buon motivo.

Per noi che entriamo nella storia, “Uruk il Possente” è solo un nome. Proprio come “Nadear la Bianca”. Esattamente come lo sono anche “Flantius Mijosot detto Colle Ondoso, Robaln Steinherz il Nano, Lantharas il mezz’elfo e Tharn l’invitto”.

Non ci dicono NULLA.
Non abbiamo elementi sufficienti (né visivo-percettivi, né emotivo-relazionali) per capire come collocare nella nostra mente queste informazioni, e quindi è molto probabile che svaniranno un attimo dopo.
E infatti è proprio così.

Soprattutto in relazione ai nomi dei quattro membri del gruppo.

Ci viene detto il loro “ruolo” (inteso come categoria di personaggio) ma non abbiamo accesso a chi siano veramente. Il nome e la descrizione sono semplici etichette appoggiate sopra, e che non sono efficaci. Soprattutto, ci dicono che dovremmo attingere a un tipo di classificazione dei personaggi che non appartiene necessariamente (solo) alla narrativa, ma ha la propria sorgente nel mondo del gioco di ruolo.
Ma qui non stiamo seguendo una campagna di Dungeons and Dragons. Non c’è un Master che ci deve guidare. Non siamo giocatori.
Siamo fruitori. Siamo lettori.
Se vogliamo che questa “faccenda della LETTURA” funzioni a dovere, bisogna saper discernere quale sia il tipo di linguaggio da adottare perché lo faccia.

Certo, quei nomi ci danno una vaga idea della TIPOLOGIA di ambiente che stiamo calcando. Ma siamo sicuri che sia il modo giusto di farlo?

Spoiler: no.

Questo tipo di narrazione, anche se ha un carattere molto personale per il NARRATORE – che dimostra di conoscere molto bene i personaggi, al punto di farne una sintesi per il lettore – ha una valenza molto impersonale per chi fruisce.
Un’altra volta, siamo tenuti a distanza.

E questo è male, perché il lettore è la metà fondamentale di ogni storia scritta.

L’errore probabilmente nasce dall’esigenza di creare una certa AUTOREVOLEZZA nei confronti della storia, per accaparrarsi la fiducia del lettore: “Guarda che sono una guida affidabile e simpatica in questo territorio. Fidati di me che non ti lascio in balia delle onde”. Ma, nella ricerca dell’autorevolezza autoriale – che comunque ogni bravo autore instaura nei confronti del suo lettore – ci si è dimenticati che le azioni dei personaggi hanno già la loro AUTOREVOLEZZA intrinseca. E che spesso surclassa quella riportata.

Sempre in LA NARRAZIONE È SEDUZIONE avevamo parlato di come esistano tre vie per accaparrarsi la fiducia del lettore:

  • attraverso la TESTA;
  • attraverso il CUORE;
  • attraverso la PANCIA (l’ISTINTO).

Qui, siamo sull’ordine della TESTA: “Ho un sacco di informazioni in merito. So quello di cui parlo. E puoi fidarti di quello che sto dicendo.”

Però, la fiducia viene a mancare se si abusa di questo meccanismo. Non serve per consegnare al lettore qualcosa di già masticato dall’autore. Serve per accompagnarlo, e per fornirgli degli accostamenti di sapori che da solo non avrebbe mai osato mischiare.

Quindi, l’approccio non è vincente. Neanche un po’.

«Come avrebbe dovuto fare?»

Ecco. Questa è una bella domanda.
Vediamo di scegliere le informazioni davvero utili e di capire come contestualizzarle.

In questa fase della storia è fondamentale sapere cosa succederà ai quattro amici che stiamo seguendo. Non solo l’evento che li coinvolge è fondamentale perché la storia di Conrad possa compiersi, ma abbiamo anche bisogno di un gancio piuttosto forte che ci traini dentro le pagine. E un evento con un po’ di CLIFFHANGER potrebbe essere la chiave giusta che ci lascia con le domande adeguate a farci proseguire.

Quindi questa parte:

Molto lontano dalle mura di Nadear, verso nord, si apre una vasta pianura rocciosa, sterile e ancor più pericolosa: le Brulle. Essa separa i Principati di Malichar dal resto delle terre conosciute.
Quattro amici stanno attraversando questa terra selvaggia e aspra, diretti a sud dopo una lunga e infruttuosa ricerca nei
Principati.
I loro nomi, dopo la sconfitta di Uruk il Possente, sono leggenda: Flantius Mijosot detto Colle Ondoso, Robaln Steinherz il Nano,
Lantharas il mezz’elfo e Tharn l’invitto. Il loro viaggio sta per concludersi, ma ancora non lo sanno.”

in buona parte è superflua e in generale va gestita meglio.

A riprova del fatto che la parte su Nadear non serve è proprio il narratore stesso a dirci che la “zona” che ci interessa è un’altra: una molto lontana dalle mura di Nadear, verso nord. “Una vasta pianura rocciosa, sterile e ancor più pericolosa: le Brulle”.

Ecco. È lì che sono i personaggi che stiamo seguendo. Ed è lì che dovremmo essere noi. Dovremmo trovarci proprio vicino a loro.
La storia dovrebbe cominciare lì.

Questa parte, per esempio:

Essa separa i Principati di Malichar dal resto delle terre conosciute.

è altrettanto INFODUMP. È ancora contesto riportato; un contesto che nomina altre cose che non possiamo conoscere e che non ci evocano niente. Cosa siano “i Principati di Malichar” e che conformazione abbiano il “resto delle terre conosciute” noi non lo sappiamo. E non abbiamo neanche idea se ci serva davvero saperlo perché, in tutto il racconto, la storia del presente tangibile di Conrad si svolge tutta intorno alla sua fattoria. Quella in cui vive.

È quello l’ambiente che ci serve. Quindi, tutto il resto dell’ambientazione deve emergere, sì, ma in modo meno invadente e più FUNZIONALE.

INFODUMP: QUESTE INFORMAZIONI POTEVANO ESSERE INSERITE MEGLIO?

Ok.

Rimettiamo insieme alcuni pezzi.
Abbiamo una compagnia di quattro amici/guerrieri di diverse fattezze. Pare che i loro nomi siano leggenda perché hanno fatto il culo a strisce a Uruk il Possente che pare fosse parecchio cattivo. I quattro stanno cercando “qualcosa” che non hanno trovato. Ci hanno provato nei Principati, ma nisba. Adesso sono nelle Brulle.

Tutte queste informazioni devono starci nel racconto? Alcune sì.
Servono a farci capire cosa stiamo fruendo. Ma teniamole da parte che poi vediamo di setacciarle un po’.

Possiamo inserirle meglio all’interno della narrazione?
Sì. Anzi dovremmo proprio farlo.

È la storia che ce lo chiede.

Avevo già menzionato il problema di capire meglio CHI siano i nostri personaggi e questo problema persiste anche nelle pagine successive.

Riprendiamo da qui:

I loro nomi, dopo la sconfitta di Uruk il Possente, sono leggenda: Flantius Mijosot detto Colle Ondoso, Robaln Steinherz il Nano, Lantharas il mezz’elfo e Tharn l’invitto. Il loro viaggio sta per concludersi, ma ancora non lo sanno.
Solo uno di loro, per motivi del tutto diversi, sa che la sua fine è prossima: si tratta di Flantius che trova conforto stringendo il suo lungo bastone in legno-ferro. Ad una estremità dell’asta, lunga un metro e mezzo, sporge un micidiale rostro d’acciaio, mentre la cima è adornata da un drago d’oro puro, cesellato nell’atto di spiccare il volo. Gli occhi del drago sono due zaffiri perfetti, e stanno brillando di un’intensa luce azzurra resa ancora più evidente dal sole ormai prossimo al tramonto.

Oh là.

Intanto non è vero che non sanno che “il loro viaggio sta per concludersi”, (almeno) uno di loro lo sa (anche se per motivi diversi).

L’autore ha usato la frase

Il loro viaggio sta per concludersi, ma ancora non lo sanno.

per agganciarsi al vero motivo della loro ricerca, che è legata a ciò che sa Flantius su sé stesso.

E questa frase ha una sua rilevanza per due motivi:

  • il narratore ci ha fuorviato e sta manipolando le informazioni: e di fatto diventa INAFFIDABILE, giocandosi ogni possibilità che possiamo credergli ciecamente in futuro. (E questo non va esattamente a vantaggio della costruzione della sua AUTOREVOLEZZA… Ahi, ahi, ahi.);
  • precede l’introduzione dello stato d’animo di uno dei personaggi. È un approccio un po’ goffo per cominciare ad arrivare dove dovremmo essere: insieme a Flantius. O più precisamente insieme al suo bastone.

In più abbiamo un’altra informazione che è utilissima per l’ambientazione, molto di più di tutta quella sfilza che ci è arrivata finora: siamo quasi al tramonto.

(Che, tra l’altro, l’espressione “prossimo al tramonto” o “quasi” al tramonto, per il lettore hanno la stessa valenza: sta tramontando.
Il nostro cervello non recepisce bene la parola “quasi”. Una cosa che è “quasi” qualcosa, per noi diventa direttamente quel qualcosa, senza il quasi. Il cervello non recepisce un mantello “quasi” nero. Per lui è nero. Come non recepisce un “quasi” tramonto. Per lui è un tramonto.
Quindi, centellinare i “quasi” è sempre un’ottima idea.)

Comunque. Alzi la mano chi si era immaginato che questa scena fosse al tramonto.

Nessuno? Neanche laggiù in fondo?

Infatti.
La nostra carrellata su Nadear che poi si è allungata velocemente sulle Brulle non ci ha dato nessuna indicazione in merito. E, senza indicazioni, il nostro cervello la inserisce in una luce più neutrale possibile, utile a immaginarla. Ci è stato detto che si chiama Nadear la Bianca con “case in malta e pietre a secco, dai tetti di tegole rosse” più “un cerchio robusto di mura candide, protette a loro volta da folte macchie di ginepro e rovi”.

Per recepire bene i colori che ci vengono dati nelle descrizioni (il bianco delle mura, il rosso dei tetti, il verde del ginepro e dei rovi) il cervello “mette in scena” sotto una luce bianca. Come se fosse mezzogiorno.

Quindi, lo spezzone su Nadear, oltre a non servire, fuorvia anche il lettore in relazione all’orario in cui ci troviamo.

Tutto avrebbe avuto decisamente un’altra atmosfera se avessimo iniziato direttamente dalle Brulle al tramonto. Avremmo avuto una luce più tendente all’arancio sulla scena. Amplificata dal colore del terreno e dalla sua conformazione. E, il tramonto in sé, ci avrebbe anche dato la suggestione del tramonto sulla loro avventura. Avrebbe accompagnato davvero il fatto che il loro viaggio stia finendo esattamente come sta finendo il giorno.
Quel tramonto sarebbe diventato più evocativo di tutti i nomi delle ambientazioni snocciolati finora.

Invece, così è sprecato.

BONUS: CORREZIONE DI BOZZA

Ci sono un paio di errori molto comuni, che si risolvono facilmente se ci si fa caso.

Ad una estremità dell’asta, lunga un metro e mezzo, sporge un micidiale rostro d’acciaio, mentre la cima è adornata da un drago d’oro puro, cesellato nell’atto di spiccare il volo.

Oltre alla “d” eufonica in “Ad una estremità” che non andrebbe usata, visto che si usa solo fra vocali uguali a/a, e/e, possiamo mettere l’apostrofo a “una estremità”.
E proprio l’APOSTROFO è il maggiore incriminato in questo testo.
Per essere CORRETTO, nel testo deve essere “a gancio” così (), invece che dritto (come si vede in foto).

Purtroppo, l’editor di testo del sito non fa distinzione tipografica nella formattazione fra i due apostrofi. Qui, tutti gli apostrofi dritti vengono trasformati in quelli a gancio automaticamente. Ma non avviene la stessa cosa nel file di testo originale, perché sono presenti entrambi.

Sembra una sciocchezza, ma non lo è per la CORREZIONE DI BOZZA.

Chi ci tiene che il testo sia pulito, dovrà fare caso anche agli apostrofi che usa scrivendo.

La versione più corretta quindi sarebbe: “A un’estremità dell’asta blablabla.”

Andiamo avanti.

Nel bastone vi è la dimora di Qar, un elementale dell’aria, che da anni è il custode arcano di Flantius. La magica creatura tenta di infondergli coraggio: «Amico mio, hai avuto una vita lunga e soddisfacente. La morte è solo un istante, tra i numerosi e straordinari che hai vissuto!»
La voce di Qar è un rapidissimo sussurro tra i pensieri di Flantius, che comprende bene il senso di quanto gli viene suggerito, ma si aggrappa alla vita come un naufrago al relitto della sua imbarcazione. Sa di non essere pronto per intraprendere l’ultimo viaggio, anche se sta per raggiungere il duecentesimo compleanno.

Il quinto personaggio in scena è forse quello più importante di tutti. E il narratore ci racconta, di nuovo, cosa sia Qar, quando avrebbe potuto semplicemente farcelo CAPIRE in un altro modo.
Non solo; si prende pure la briga di scrivere dialoghi ridondanti, perché forse non è certo che possiamo capire il tono e il senso di ciò che Qar ci sta dicendo.

La magica creatura tenta di infondergli coraggio: «Amico mio, hai avuto una vita lunga e soddisfacente. La morte è solo un istante, tra i numerosi e straordinari che hai vissuto!»

Siamo proprio sicuri che sia necessario ribadire di nuovo che Qar è “una magica creatura” e che, soprattutto “tenta di infondergli coraggio”?
Non è abbastanza chiaro dalla battuta: «Amico mio, hai avuto una vita lunga e soddisfacente. La morte è solo un istante, tra i numerosi e straordinari che hai vissuto!»?
Sì, lo è. È chiarissimo.
Sono palesi entrambe le cose.

Gli sta parlando nella testa: è una creatura magica.
Esprime parole di incoraggiamento: lo sta incoraggiando.

Per questo ci stona anche che ci venga spiegato che Flantius comprende bene le parole di Qar, ma si aggrappa alla vita anche se ha quasi duecento anni.
Noi le abbiamo capite perfettamente, perché lui non avrebbe dovuto?

Sì, sì. Lo so che è solo un gancio per far spiegare al narratore che Flantius ha quasi duecento anni. Ma, di nuovo, perché?
Perché così?

Perché queste informazioni ci vengono servite in modo così artificioso? Perché deve darcele il narratore?
Perché i personaggi vengono gestiti come marionette?
Perché si pensa che il lettore non sia capace di capire?

I lettori sono molto più furbi di quello che possa pensare un autore emergente alle prime armi. Non vogliono essere imboccati. Vogliono essere sedotti. Che è un po’ diverso.

Cooomunque. Dalla battuta, Qar sembra piuttosto “legnoso” per essere un grande amico di Flantius. Da una creatura magica presentata in questo modo ci si aspetterebbe un tipo più TRASVERSALE di approccio e di DIALOGO. Dalla loro interazione deve trasparire questa confidenza, deve trasparire tutto ciò che c’è stato fra loro in tutto il tempo che hanno passato insieme. Non dalla quantità delle informazioni inserite in merito, ma dalla grana che hanno le parole che si scambiano. (Ne avevamo parlato qui: I DIALOGHI TRASVERSALI SVELANO I PERSONAGGI.)
Questa battuta è “posticcia”. Vuole sottolineare qualcosa che dovrebbe essere sottinteso in altre parole più efficaci.
Quell’affetto deve sembrare vero. Così sembra solo una brutta messa in scena; un mezzo per arrivare a un fine.

La vera soddisfazione di un lettore subentra quando può toccare con le proprie mani e i propri sensi, in autonomia, una scrittura che è esattamente quello che dovrebbe essere: un concentrato percettivo di mestiere. In questo brano, i sensi vengono stimolati pochissimo. La VISTA è quello che viene sollecitato di più, ma non dovremmo dimenticare anche gli altri. (Della sollecitazione del VAKOG, e del motivo per cui farlo, ne avevamo parlato nell’articolo: COSA SONO I CORRELATIVI OGGETTIVI?.)

Tutto sommato, se si guarda con il necessario distacco, finora questa pagina e mezzo di racconto si è dimostrata solo una grande “rincorsa” per arrivare a quello che ci interessa davvero, e che in proporzione sembra un salto alto come uno scalino.

Non credo che sia un utilizzo molto lungimirante degli spazi del testo, e soprattutto della soglia d’attenzione del lettore.

Al momento, questa gestione risulta poco incidente e troppo concentrata su sé stessa invece che sul fornire cosa serva al lettore, presentandoglielo al meglio possibile.
Questa scrittura è autoreferenziale. Ma non con un’accezione positiva.
Anche perché dobbiamo tenere conto che un lettore, quando entra in una nuova storia, e in ogni nuovo capitolo, per prima cosa cerca di definire tre cose: dov’è; chi c’è in scena; e quando si svolge ciò che sta fruendo.
Sono queste le informazioni che la sua mente cerca febbrilmente per orientarsi, per dirgli “Tu sei qui” come quando guardi una mappa al parco divertimenti. Quindi, vaglia e scarta tutto quello che non gli serve finché non le ha trovate, e va da sé che tutto ciò che viene prima delle risposte a quelle domande, viene (prevalentemente) ignorato e “dimenticato”.

Comunque, mettiamo da parte l’informazione che Qar vive nel bastone e che Flantius ha (quasi) duecento anni.

Guarda gli amici, i compagni che da oltre un secolo sono i suoi inseparabili fratelli. È triste, ma anche risoluto: le sue ricerche lo hanno portato ad un passo dal rinviare all’infinito la fine della propria vita.
È sulle tracce del più grande mago che sia mai comparso tra le terre di Tharamys: Yor.
Dopo una ricerca durata mesi, durante la quale ha visto il tempo a propria disposizione ridursi inesorabilmente, finalmente ha
trovato qualcosa di concreto. Un orco di nome Geneißer1. L’ultimo essere ancora in vita che ha avuto contatti con Yor da vivo.

(1 Pron. Ghenaisser)”

Ecco. Allora il narratore lo SA cosa stanno cercando i quattro (e soprattutto Flantius).

Però, all’inizio del racconto ci ha VOLUTAMENTE tenuto sulle spine parlando con termini vaghi. Ci ha RACCONTATO di una “lunga e infruttuosa ricerca” quando avrebbe potuto andare dritto al punto. Senza girarci intorno.
Erroneamente a quello che può aver pensato l’autore, questo non crea aspettativa nel lettore, ma crea DIFFIDENZA nel NARRATORE.
Ancora una volta, si sta giocando la sua AUTOREVOLEZZA una parola alla volta. Ed è ancora più grave se pensiamo al potenziale target di riferimento di questa storia.
Le storie per ragazzi devono essere particolarmente focalizzate sulla storia, perché i ragazzi non hanno tempo da perdere in quisquilie quando leggono. Tutto quello che è contorno deve essere perfettamente integrato nella trama, se non vogliamo che perdano interesse per ciò che stanno leggendo.

Allora, tiriamo le somme: Flantius non vuole morire. Flantius sta cercando Yor per evitare di farlo. Flantius sta guidando i suoi “amici, compagni e inseparabili fratelli”, senza che loro lo sappiano, verso la morte certa per lui che, a duecento anni, non si vuole rassegnare alla morte dopo aver passato una vita piena e soddisfacente. Flantius è egoista e il narratore parteggia per lui.

Non suona molto bene, vero?

«Perché dici che parteggia per lui?»
Perché è l’unico personaggio di cui stiamo sondando l’intimità.

Però, con molta probabilità questo avviene non per Flantius in sé ma per Qar. Perché, in questo frangente, è più importante di lui.

Concettualmente, quello che sta facendo l’autore è sbucciare un carciofo.
Parte dall’esterno, leva un petalo alla volta e piano piano cerca di arrivare al cuore più interno: quello che è buono da mangiare.

Ma perché?
Perché mi stai facendo vedere cosa devo scartare, se quello che mi interessa davvero è quello che voglio tenere?
È uno spreco.

Qui non si tratta di togliere al carciofo qualcosa di sé stesso per negargli di essere un carciofo.
Se togliamo l’esterno che non ci serve, dentro rimane comunque un carciofo. Ma ne rimane la parte migliore.
Gestire meglio le informazioni non cambia la natura del carciofo. Non lo rende una cipolla, per dire.
Semplicemente, mi permette di arrivare al cuore di ciò che voglio, nel punto in cui il sapore è migliore e mi dice esattamente che quel carciofo ha il sapore che dovrebbe avere.

Flap. Tolto un altro petalo: Flantius sta cercando Yor, un mago potente che può renderlo immortale.

 Dopo una ricerca durata mesi, durante la quale ha visto il tempo a propria disposizione ridursi inesorabilmente, finalmente ha
trovato qualcosa di concreto.

Ok. Vi ricorda qualcosa quella frase?
Vediamo un po’… ah, sì. Questa, già menzionata:

Quattro amici stanno attraversando questa terra selvaggia e aspra, diretti a sud dopo una lunga e infruttuosa ricerca nei
Principati.

Praticamente dice la stessa cosa, ma in maniera più vaga.

Queste sono le trappolone che rendono ridondante un testo.
In un testo narrativo, se senti la necessità di ribadire tante volte la stessa cosa al lettore ma in modi diversi, probabilmente pensi che chi legge non l’abbia capito. E stai perdendo di efficacia.

Come dite? È esattamente quello che sto facendo in questo articolo?

Sì. Proprio così. Ma qui si parla di didattica e di analisi. Di evidenziare perché gli errori sono errori. E di fare in modo che quei concetti si ficchino bene nella memoria.
Si tratta di creare un percorso logico.
Soprattutto, anche, si tratta di rendere palese qualcosa che evidentemente per l’autore non lo è. Altrimenti avrebbe adottato un’altra condotta.

E, a proposito di rendere palesi delle cose, abbiamo questa perla:

Un orco di nome Geneißer1. L’ultimo essere ancora in vita che ha avuto contatti con Yor da vivo.

(1 Pron. Ghenaisser)

Tralasciando l’ennesimo raccontato del narratore, ammetto che la nota mi ha un po’ “stranita”.

È un testo narrativo o è un manuale?

Perché la mole di INFODUMP presenti, l’indugio sull’ambientazione a scapito dei personaggi, la classificazione descrittiva dei personaggi e questo “atteggiamento” del narratore/autore fanno presupporre che qui, di narrativo, ci sia ben poco.

Ok. La cura ai dettagli.
Ok. La precisione.
Ok. La scelta di un nome che debba essere pronunciato in un certo modo e che provenga da origini “filo-germaniche”.
Ok, tutto.

Ma, perché?
Perché non operare una scelta che penda da una specifica parte invece che stare nel mezzo e adottare questa via di mezzo ibrida?
Perché acquisire un tono da “insegnante” quando si è lì per far immergere il lettore in una storia?
È controproducente. Qui.
Ci sono altri modi più furbi per assolvere allo stesso scopo.

Vuoi che le persone lo pronuncino bene mentre leggono?
Hai due vie:

  • lo scrivi come si pronuncia: salutiamo tutti Ghenaisser, un orco che non vedremo mai più in questo racconto e di cui comunque ci saremo dimenticati il nome fra qualche pagina;
  • metti in bocca ai personaggi il pretesto per parlare della pronuncia del nome. In questo modo fornisci loro un piccolo conflitto che ci faccia capire qualcosa di chi siano (magari uno di loro ha la tendenza a correggere gli altri, magari c’è qualcuno meno erudito degli altri… magari semplicemente uno di loro ritiene impronunciabile la lingua degli orchi) e assolvi due compiti in uno. Spiegazione e resa drammatica in scena.

(Il terzo modo è lasci il nome com’è e fai i conti con il fatto che alcuni lo pronunceranno giusto e altri no.)

Le informazioni vanno OTTIMIZZATE. Sempre.

Ed è per cercare Geneißer che ora si trova davanti ad un avvallamento nel suolo roccioso e arido delle Brulle meridionali, una decina di miglia a nord dal confine Kireziano. Il fondo della conca si trova una decina di metri più in basso, ed è occupato da
otto scorpioni giganti che se ne stanno immobili. Poco più in là, lungo la parete più ripida, si apre una scura caverna. Oltre il bordo della conca, lungo l’orizzonte basso e grigio, la luna immensa, rossa e minacciosa, sta sorgendo.
«Ci siamo», dice l’anziano mago ai suoi amici, «gli orchi che stiamo cercando sono lì dentro. Geneißer è con loro.»
«Se sei sicuro che sia necessario», gli risponde Tharn, mentre valuta gli scorpioni, «io sono pronto» e scende dalla sua cavalcatura.
«Sento profumo di orchi», dice Robaln mentre smonta da cavallo e impugna lo spadone, «Tharn, puoi liberare l’ingresso, per favore?», la voce del Nano è tranquilla, anche se ha appena chiesto al suo amico di passare a fil di spada alcuni scorpioni giganti, con lo stesso tono gentile con cui un comune mortale siede a tavola e chiede che gli venga passata la brocca del vino.
Lantharas è l’unico che mostra segni di incertezza e ne parla apertamente con Flantius.
«Io proverei a chiedere, senza inutili spargimenti di sangue: finora nessuna delle informazioni che hai ottenuto si è rivelata molto utile…»
«Inutile? Uccidere orchi non è mai inutile!» lo interrompe Robaln che comincia a manifestare una certa impazienza: sente puzza
d’orchi e tutto il suo corpo trasmette l’urgenza di eliminare qualche altro centinaio di “Kelfer”, porcellini, tanti ne ha fiutati.
Thalanras è infastidito dall’interruzione e lo lascia capire sbuffando: «Vogliamo parlare allora del buco nell’acqua ottenuto a
Malichar?»
«Si, dovevamo decapitare quel… come si chiamava? Tuermag?» lo rimbecca subito Robaln, che comincia a camminare da fermo per sgranchirsi.
«Tuerdrag, Etienne Tuerdrag» puntualizza Lantharas, con finta condiscendenza «che è ancora furioso per i disastri che Yor ha
causato, vendendo il proprio reame a suo nonno, il principe Laiton Tuerdrag III, pochi anni prima che il vulcano esplodesse… una
truffa colossale, se ci pensi.»
«E poi non contento gli ha anche ammazzato il padre» commenta Flantius, profondamente rattristato per quelle notizie «Non mi sarei mai aspettato un comportamento tanto violento da parte di Yor»
«Anche tu, Flantius, hai torturato e ucciso un orco e…» lo riprende Lantharas, senza più alcun freno sulla lingua.
«Era necessario», lo interrompe Flantius, intento anche lui a valutare scorpioni e ingresso, «invece di rispondere alle mie
domande, quella bestia ha tentato di ucciderci!»
«Cosa ti aspetti da un orco quando gli punti addosso un’arma? Anche col principe Etienne Tuerdrag, se avessimo usato un tono
più diplomatico…» lamenta il mezz’elfo che gira la testa verso la caverna.
«Ignoro il motivo per cui un mago potente come Yor, che si dice abbia combattuto contro orde di orchi, abbia poi voluto averne
alcuni tra i suoi discepoli. Quello che conta è che alcuni sono rimasti e sono ancora vivi per raccontarmi tutto quello che sanno… e lo faranno!» Flantius è saldo, determinato e assolutamente certo di ottenere altre preziose informazioni.

Fermiamoci qui.
Oltre alle descrizioni statiche dell’inizio dell’estratto, oltre alle “d” eufoniche sparse, ad alcuni problemi di punteggiatura, a un “sì” senza accento, e oltre al raccontato che oramai è assodato come presente… tutto questo dialogo non “regge”.

Come quello precedente, è infarcito di spiegazioni ridondanti che raddoppiano ciò che dicono i personaggi. Le battute di dialogo scelte non sono affatto naturali e, soprattutto, non si capisce chi dica cosa.
Non perché le attribuzioni manchino. Ma perché non sappiamo CHI siano i personaggi e perché dovrebbero parlare in un modo o in un altro.

Non riusciamo a “distinguere” le loro VOCI, perché si somigliano fra di loro.

Tutti i caratteri sprecati in informazioni inutili, avrebbero dovuto essere impiegati per caratterizzare meglio i personaggi che, interagendo in modo dinamico fra di loro e nell’ambiente in cui sono inseriti, avrebbero veicolato tutto quello che ci ha fornito il narratore. Ma meglio.

Qui abbiamo un guazzabuglio di nomi che si susseguono, di persone che parlano di cose che non hanno una reale utilità alla scena, con il PRETESTO di inserire altre informazioni che, ora, NON CI SERVONO.
È come se l’autore (e per estensione il narratore) sapesse davvero tanti particolari dei suoi personaggi, ma non sapesse discernere quelli che contano davvero.
Non mette in alcun modo in evidenza i PERCHÉ che muovono i personaggi. Concentrandosi su cose più marginali. Stiamo, anche qui, indugiando su petali di carciofo esterni. Flap, flap, flap.

Ah, in più sono apparsi dei cavalli che nessuno ha menzionato prima. Magia…

Adesso il lettore è costretto a re-immaginarsi tutto di nuovo, ponendo i personaggi sui cavalli, quando magari poteva esserseli immaginati a piedi. Soprattutto visto che ci è stato detto che Flantius ha trovato conforto stringendo il suo bastone.
Questa informazione è fuorviante perché potenzialmente mette il mago, che è anziano, appoggiato al suo bastone mentre cammina.
Adesso invece scopriamo che è a cavallo. Ma non abbiamo sentito nessun nitrito. Non abbiamo percepito nessun dondolio sulla sella. Nessuno scalpiccio sul terreno pietroso. Nessuno sbuffo. Nessuna mano sulle redini.

Non abbiamo visto né sentito nulla. (Ora è chiaro perché la pagina deve essere “percettiva” e tridimensionale?)

«Ci siamo», dice l’anziano mago ai suoi amici, «gli orchi che stiamo cercando sono lì dentro. Geneißer è con loro.»
«Se sei sicuro che sia necessario», gli risponde Tharn, mentre valuta gli scorpioni, «io sono pronto» e scende dalla sua cavalcatura.
«Sento profumo di orchi», dice Robaln mentre smonta da cavallo e impugna lo spadone, «Tharn, puoi liberare l’ingresso, per favore?», la voce del Nano è tranquilla, anche se ha appena chiesto al suo amico di passare a fil di spada alcuni scorpioni giganti, con lo stesso tono gentile con cui un comune mortale siede a tavola e chiede che gli venga passata la brocca del vino.”

Mentre. Mentre. Mentre…

Lo sappiamo tutti: scrivere un buon dialogo non è una cosa affatto facile. Ma ci sono accorgimenti che si possono tenere in considerazione.
Già da queste prime battute si ha una sensazione di confusione e “pesantezza”.
È dovuta al modo in cui le battute sono concepite.

– Battuta → Dialogue Tag → Battuta.
– Battuta → Dialogue Tag → Azione → Battuta → Azione.
– Battuta → Dialogue Tag + Azione → Battuta → Beat (ma gestito come un Dialogue Tag).

Sono tutte battute COMPOSTE. E siamo anche costretti a chiederci:
“Aspetta, chi era Tharn? E questo Robaln chi era?”

Se il lettore è costretto a tornare indietro per cercare chi siano in quell’ammucchiata di nomi precedente, l’autore ha fallito, perché ha fatto inciampare la mente del lettore e l’ha costretto a interrompere la suggestione della storia, per tornare indietro, riavvolgere il nastro di quello che ha letto e recuperare l’informazione che gli mancava per comprendere.
Il problema è che, quando poi tornerà di nuovo al punto, il modo in cui ha ricevuto quell’informazione sarà così inconsistente che l’avrà persa di nuovo e quindi la sensazione di spaesamento non sarà affatto finita.

Tornando alle BATTUTE COMPOSTE, sono troppe, tutte insieme.

Non sono efficaci. E, con l’intento di trovare una simultaneità che connetta azione e battuta, l’unica cosa che creano è la confusione.
È come se si chiedesse al lettore di guardare e sentire troppe cose contemporaneamente.

Anche qui è necessario operare una scelta che permetta di creare un flusso di informazioni fruibile, comprensibile, che chiarisca in modo inequivocabile quello che si vuole mostrare.

È una tecnica che chi scrive sceneggiature padroneggia bene. Cioè guida attraverso la scrittura lo sguardo dello spettatore sulla scena, perché non ha la possibilità di indugiare sulla sua psicologia intima, e quindi sa che tutto ciò che è in scena deve concorrere a suggerire ciò che è importante.

Questa concezione di sguardo sulla scena può essere utile anche a chi scrive narrativa.

Vediamo se riesco a farvi capire cosa intendo, pianificando la scena.

Flantius tira le redini del suo cavallo e si ferma nell’avvallamento roccioso. «Ci siamo.»
Guarda i suoi compagni, che uno a uno si fermano ai suoi fianchi.
Sentiamo lo scalpiccio degli zoccoli e qualche sbuffo.
Nella luce del tramonto che crea lunghe ombre dietro di loro e taglia in obliquo la conca che stanno osservando, Flantius nota l’imbocco della caverna, dieci metri più in basso: una macchia scura nella ripida parete rocciosa.
«Gli orchi che stiamo cercando sono lì dentro. Geneißer è con loro.»
Tharn valuta gli scorpioni giganti nella conca. Sono otto e sono immobili. Guarda Flantius e gli fa un cenno con la testa in direzione delle creature. «Se sei sicuro che sia necessario, io sono pronto.»
Scende di sella e tiene il cavallo per le redini.
Robaln alza il naso al vento e inspira a fondo. «Ha ragione: c’è profumo di orchi.»
Scende a sua volta di sella. Sguaina lo spadone, e si mette al fianco di Tharn.
Gli batte il pomolo sulla coscia.
«Ci pensi tu all’ingresso, per favore?» Glielo chiede come si potrebbe chiedere una brocca di vino a tavola.
Tharn abbassa lo sguardo, i loro occhi si incontrano. Si sorridono a vicenda.

Più o meno sono le stesse informazioni, ma abbiamo pilotato lo sguardo del lettore. Lo abbiamo fatto soffermare su un dettaglio alla volta. In sequenza. Possiamo comprendere che Robaln è un Nano perché Tharn deve abbassare lo sguardo per agganciare i suoi occhi e perché Robaln gli batte il pomolo dello spadone sulla coscia invece che sul braccio.
Abbiamo più fluidità, e decodifichiamo meglio le informazioni presenti.

Il passo successivo è tradurre questa sequenza in un linguaggio narrativo adeguato allo STILE dell’autore.

Ma già così siamo in grado di permettere ai gesti dei personaggi di spiegare tante cose in autonomia, senza che il narratore debba intromettersi a spiegare troppo.
Otteniamo un senso di “leggerezza” perché non veniamo bombardati da troppe cose insieme e creiamo un’alternanza elegante negli scambi fra i personaggi.

Lantharas è l’unico che mostra segni di incertezza e ne parla apertamente con Flantius.
«Io proverei a chiedere, senza inutili spargimenti di sangue: finora nessuna delle informazioni che hai ottenuto si è rivelata molto utile…»
«Inutile? Uccidere orchi non è mai inutile!» lo interrompe Robaln che comincia a manifestare una certa impazienza: sente puzza
d’orchi e tutto il suo corpo trasmette l’urgenza di eliminare qualche altro centinaio di “Kelfer”, porcellini, tanti ne ha fiutati.
Thalanras è infastidito dall’interruzione e lo lascia capire sbuffando: «Vogliamo parlare allora del buco nell’acqua ottenuto a
Malichar?»
«Si, dovevamo decapitare quel… come si chiamava? Tuermag?» lo rimbecca subito Robaln, che comincia a camminare da fermo per sgranchirsi.
«Tuerdrag, Etienne Tuerdrag» puntualizza Lantharas, con finta condiscendenza «che è ancora furioso per i disastri che Yor ha
causato, vendendo il proprio reame a suo nonno, il principe Laiton Tuerdrag III, pochi anni prima che il vulcano esplodesse… una
truffa colossale, se ci pensi.»
«E poi non contento gli ha anche ammazzato il padre» commenta Flantius, profondamente rattristato per quelle notizie «Non mi sarei mai aspettato un comportamento tanto violento da parte di Yor»”

È chiaro che oramai dovreste aver capito che:

Lantharas è l’unico che mostra segni di incertezza e ne parla apertamente con Flantius.

non serve se dopo c’è una battuta che dice esattamente:

«Io proverei a chiedere, senza inutili spargimenti di sangue: finora nessuna delle informazioni che hai ottenuto si è rivelata molto utile…»

Sono due versioni della stessa cosa e la battuta è da preferire alla spiegazione del narratore.

Però è interessante la frase che viene subito dopo:

«Inutile? Uccidere orchi non è mai inutile!» lo interrompe Robaln che comincia a manifestare una certa impazienza: sente puzza
d’orchi e tutto il suo corpo trasmette l’urgenza di eliminare qualche altro centinaio di “Kelfer”, porcellini, tanti ne ha fiutati.

Spezzettiamo.

Mi interessa soprattutto il Dialogue Tag “lo interrompe”.
Da come è scritta la battuta, non sembra affatto un’interruzione.
Un po’ per via del senso e del tono che ha la battuta di Lantharas, che potrebbe benissimo finire con i puntini perché davvero sta esprimendo la sua riluttanza/diffidenza in relazione ai fallimenti a cui sono già andati incontro e sospende per dare modo a Flantius di rimuginarci.
Un po’ perché, se vogliamo una troncatura netta, è meglio operarla con un trattino lungo, invece che lasciarla ai puntini che, proprio per il loro nome, sospendono. (Per approfondire la faccenda del trattino lungo, puoi farlo su questo articolo: UNISCE, SEPARA, INTERROMPE: IL TRATTINO.)
Ricordiamo anche che Lantharas finisce la battuta con la parola “utile” e Robaln prende la parola utilizzando “inutile”. Ripetendola come se non credesse alle sue orecchie.

Anche questo è un problema. Lo ha interrotto con la parola sbagliata.

[…] nessuna delle informazioni che hai ottenuto si è rivelata molto utile…»
«Inutile? Uccidere orchi non è mai inutile!» lo interrompe […]

Così, avrebbe avuto un altro senso:

[…] nessuna delle informazioni che hai ottenuto si è rivelata molto util—»
«Non importa. Uccidere orchi è sempre utile, anche quando non lo è!»

Abbiamo l’interruzione senza doverlo ribadire con un DIALOGUE TAG dopo la battuta.

(Che comunque arrivava così in ritardo sulla battuta da rendersi inutile già di per sé.)
E abbiamo una risposta che si accorda meglio a ciò che viene prima.

In più, dovremmo valutare bene se lasciare questo in bocca al narratore:

[…] Robaln che comincia a manifestare una certa impazienza: sente puzza d’orchi e tutto il suo corpo trasmette l’urgenza di eliminare qualche altro centinaio di “Kelfer”, porcellini, tanti ne ha fiutati.

in modo che ripeta quello che ha già detto Robaln poco sopra sul “profumo degli orchi che sta fiutando”.

Sarebbe meglio gestire la frase come se fosse Robaln a pronunciarla.

«Io proverei a chiedere, senza inutili spargimenti di sangue: finora nessuna delle informazioni che hai ottenuto si è rivelata molto util—»
«Non importa. Uccidere orchi è sempre utile, anche quando non lo è. Ci saranno almeno un centinaio di quei “Kelfer” rintanati lì dentro. La mia spada freme.»

Narratore eliminato dalla battuta. Capiamo comunque l’impazienza del Nano e capiamo che “Kelfer” non è esattamente un complimento. In più, capiamo che è un modo diverso di intendere gli orchi. Ci sarà tempo successivamente, volendo, per farci capire che significa esattamente “porcellini”.

Thalanras è infastidito dall’interruzione e lo lascia capire sbuffando: «Vogliamo parlare allora del buco nell’acqua ottenuto a
Malichar?»
«Si, dovevamo decapitare quel… come si chiamava? Tuermag?» lo rimbecca subito Robaln, che comincia a camminare da fermo per sgranchirsi.
«Tuerdrag, Etienne Tuerdrag» puntualizza Lantharas, con finta condiscendenza «che è ancora furioso per i disastri che Yor ha
causato, vendendo il proprio reame a suo nonno, il principe Laiton Tuerdrag III, pochi anni prima che il vulcano esplodesse… una
truffa colossale, se ci pensi.»
«E poi non contento gli ha anche ammazzato il padre» commenta Flantius, profondamente rattristato per quelle notizie «Non mi sarei mai aspettato un comportamento tanto violento da parte di Yor»
«Era necessario», lo interrompe Flantius, intento anche lui a valutare scorpioni e ingresso, «invece di rispondere alle mie
domande, quella bestia ha tentato di ucciderci!»
«Cosa ti aspetti da un orco quando gli punti addosso un’arma? Anche col principe Etienne Tuerdrag, se avessimo usato un tono
più diplomatico…» lamenta il mezz’elfo che gira la testa verso la caverna.
«Ignoro il motivo per cui un mago potente come Yor, che si dice abbia combattuto contro orde di orchi, abbia poi voluto averne
alcuni tra i suoi discepoli. Quello che conta è che alcuni sono rimasti e sono ancora vivi per raccontarmi tutto quello che sanno… e lo faranno!» Flantius è saldo, determinato e assolutamente certo di ottenere altre preziose informazioni.

Qui, di nuovo abbiamo la dichiarazione di intenti del personaggio che, però, sorpresa!, è un refuso. “Thalanras” non esiste.
Invece di scrivere che “è infastidito dall’interruzione e lo lascia capire sbuffando” lo facciamo sbuffare. E poi attacchiamo la battuta di risposta.
Perché si capisce comunque. E non rallenta la fruizione della battuta.
Stesso discorso per “rimbecca”, “puntualizza”, “commenta”. Non servono se le battute sono gestite bene. Perché l’intento sarà evidente.

È un peccato che i personaggi comincino a becchettarsi per qualcosa che non SERVE.

È solo un pretesto per inserire altri nomi, di altri personaggi che non vedremo mai in questo racconto, che fa perdere un’informazione che è utile perché è un campanello d’allarme: non si sa come, ma Yor si accompagnava a degli orchi.

Tutta la pappardella: “«Tuerdrag, Etienne Tuerdrag» puntualizza Lantharas, con finta condiscendenza «che è ancora furioso per i disastri che Yor ha causato, vendendo il proprio reame a suo nonno, il principe Laiton Tuerdrag III, pochi anni prima che il vulcano esplodesse… una truffa colossale, se ci pensi.»
«E poi non contento gli ha anche ammazzato il padre» commenta Flantius, profondamente rattristato per quelle notizie «Non mi sarei mai aspettato un comportamento tanto violento da parte di Yor»
«Era necessario», lo interrompe Flantius, intento anche lui a valutare scorpioni e ingresso, «invece di rispondere alle mie
domande, quella bestia ha tentato di ucciderci!»
«Cosa ti aspetti da un orco quando gli punti addosso un’arma? Anche col principe Etienne Tuerdrag, se avessimo usato un tono
più diplomatico…» lamenta il mezz’elfo che gira la testa verso la caverna.”, altro non è che INFODUMP.

Insomma, tutti i DIALOGUE TAG che sono presenti vanno a ribadire cose che dovrebbero essere ovvie. E le battute sono utilizzate a sproposito per inserire INFODUMP.

No buono.
Il resto del capitolo finisce così. Con esattamente gli stessi errori che ho già menzionato.
(Sì, anche riguardo alla nuova nota che vedrete e che l’autore ha inserito, per la quale valgono le considerazioni di prima. Perché ancora una volta ha spostato l’attenzione sul NARRATORE invece che sulla STORIA.
Questa non è La Guida Galattica per gli autostoppisti. Il tono di voce è diverso, e quel tipo di nota risulta fuoriluogo.)

Dal bastone, Qar percepisce tuttavia un’emozione che è ben lontana da quanto l’uomo va mostrando. Sa che Flantius è disperato, e sa anche che la loro unione è destinata a concludersi.
Prova una grande pena per il suo amico dalla vita breve, ma come sempre, evita di guardare nel futuro di tutti: gli procurerebbe solo noie, nel caso migliore, e guai seri in quello peggiore.
Ha appreso da tempo che il futuro non è scritto: quello che tutti chiamano futuro è solo una probabilità, inconsistente quanto una
nuvola e altrettanto capricciosa.
Qar sa bene che rivelare informazioni riguardo un evento, altera le probabilità che si realizzi. Il paradosso è che se l’evento è positivo le sue probabilità di avverarsi diminuiscono, la nube diviene più piccola o svanisce del tutto. Se l’evento è negativo, di solito si trasforma in una tempesta. Troppe volte, in passato, ha cercato di salvare qualcuno dal proprio destino, o ha tentato di favorirlo raccontando gli eventi futuri. Ha imparato dai propri errori: sceglie di non guardare e lascia parlare Thalanras.
«E se fosse un altro buco nell’acqua, nella lava o in qualsiasi altro materiale tu desideri? Io dico: entriamo e chiediamo, se poi ci attaccano a vista ci divertiremo un po’ o avremo la possibilità di…»
«… di scappare, mezz’elfo codardo?» lo rimbecca Robaln, provocandolo.
«Di andarcene subito e risparmiare tempo e incantesimi, o almeno potevamo farlo fino a un attimo fa», ribatte il mezz’elfo, impugnando l’arco che porta sempre appeso alla schiena insieme alla faretra.
La sua espressione è cambiata all’istante ed ora è corrucciata, il suo sguardo punta diritto verso il fondo della conca, i suoi muscoli si tendono d’istinto.
Robaln smette di punzecchiare il suo amico e si volta di nuovo verso la caverna.
«Qualcuno sta uscendo» commenta Tharn, laconico.
«Più di qualcuno» gli fa eco Robaln, che gongola mentre comincia a contare, «unoduetrequattro… ventitré e ventiquattro!
Mago, spera che i tuoi incantesimi siano più veloci della mia spada, perché oggi mi coprirò di gloria!»
«Strano modo hai di chiamare le budella di orco» ribatte Lantharas mentre incocca una freccia.
Flantius osserva un nutrito gruppo di orchi che sta sciamando fuori dalla caverna. Non sono tanti, ma sono grandi quasi il doppio di quelli che normalmente assaltano le carovane che viaggiano tra Malichar e Kirezia, ben corazzati e armati delle loro micidiali asce doppie.
I due gruppi si fronteggiano per qualche istante, lo scontro imminente è impari eppure nello sguardo dei quattro amici non c’è
paura, né incertezza: Tharn impugna le sue armi, Lantharas prende la mira, Robaln sorride dietro la sua folta barba color basalto. Altri due orchi escono e raggiungono i compagni, ma sono molto diversi: non sono solo grossi, sono anche grassi e indossano una tunica nera con un grande artiglio rosso dipinto sul petto.
«Fate attenzione ai due in retroguardia», li avverte Flantius, «sembrano utenti di magia, anche se non ho mai visto orchi capaci
di scagliare qualcosa di più complesso di un dardo magico.»
«So-rip!2» grida Lantharas, mentre scaglia la prima freccia che a metà traiettoria si ricopre di rune luminose e un istante dopo
esplode a meno di un metro dalla prima fila di orchi. Gli orchi investiti dall’esplosione vengono scagliati lontano, privi di vita.
«Non vale!» grida Robaln mentre è già in carica.
Tharn è al suo fianco con le spade in pugno, e sorride pregustando lo scontro imminente. Indossa una corazza leggera, in
scaglie di drago nero. Le lame che brandisce brillano e riflettono tanto la luce del sole al tramonto, quanto quella della luna che sorge.
Le rune incise sulle lame prendono vita e lasciano vistose scie luminose blu e rosse nell’aria.
Lantharas incocca un’altra freccia. Flantius alza il suo bastone. I due orchi in retroguardia si prendono per mano, e intonano una
litania dai suoni gutturali.
«Quei due stanno per lanciare un incantesimo, non so cosa sia, ma percepisco le loro aure: ottavo circolo di potere.» Qar è preoccupato e alla velocità di un pensiero trasmette tutto questo a Flantius.
Il vecchio mago impiega poche frazioni di attimo per afferrare la gravità e decidere di fuggire: ormai conosce il luogo e può tornarvi con la magia in qualsiasi momento.
Gli incantesimi del settimo circolo sono rari, ma quelli dei circoli superiori sono veri e propri segreti di stato, incanti capaci di sollevare montagne e sprofondare regni. Non ha idea di come possano, due orchi, essere in possesso di una simile conoscenza, ma, mentre formula le sillabe di attivazione dell’incantesimo di ritorno istantaneo, si rende conto di non avere nulla di adeguato.
Il cuore accelera e i folti capelli bianchi si rizzano sulla nuca del vecchio mago mentre completa l’attivazione del ritorno su tutto il gruppo.
Un attimo di troppo.
Un lampo di tenebra inghiotte ogni cosa, tranne la luce rossosangue della luna piena ancora bassa all’orizzonte.
Un istante dopo, Qar si ritrova nelle tenebre più fitte, da solo: di Flantius e dei suoi amici non c’è più alcuna traccia.

(2 Pron: So-rip!, si tratta delle sillabe di attivazione per l’incantesimo posto sulla freccia.
Si raccomanda di non pensare, non ripetere e non visualizzare troppo le parole di potere: si rischia di richiamare l’attenzione di creature extradimensionali. Il lettore è avvisato, l’autore e l’editore declinano ogni responsabilità circa l’uso improprio di tale conoscenza.)

(Nota della nota: La parola So-rip! nel testo del racconto è scritta con un FONT che non viene riconosciuto dall’editor di testo di WordPress. Ma nel testo originale è scritta in modo che nessuna delle lettere in causa si possa riconoscere: ecco perché la scelta di inserire la nota da parte dell’autore… Però, date le considerazioni precedenti, siamo sicuri che sia una scelta vincente mettere in difficoltà il lettore?)

Ok. Facciamo un po’ il punto a ritroso e tiriamo un po’ le somme prima di andare avanti.

Cosa abbiamo visto?

«Abbiamo visto un altro refuso sul nome di Lantharas…»
Non è a quello che mi riferivo.

«Poi abbiamo visto che ci sono tante descrizioni dell’abbigliamento dei personaggi, che arrivano troppo in ritardo rispetto a dove dovrebbero essere sulla scena. Infatti avrebbero dovuto trovarsi molto prima, quando i personaggi cominciavano a interagire, non sul finale di scena quando oramai erano già stati parzialmente immaginati dal lettore…»
Sì, questo è perfettamente vero e lo mettiamo in saccoccia, anche se non intendevo neanche questo.

Flantius è ossessionato dalla paura di morire. Lo è a tal punto che ha spinto i suoi valorosi amici a cercare per mesi le tracce lasciate da Yor, il mago che può essere la chiave per la sua immortalità. In virtù di questo, i quattro si vanno a ficcare in un guaio con gli orchi e Qar si ritrova da solo, nel buio.

Ok.
Queste sono le cose che servono davvero alla scena. Il nocciolo del discorso. Intorno alla costruzione di questa dinamica, ha senso mettere altre informazioni che la supportino a dovere.

E adesso evidenzio in giallo tutte le informazioni che non servono. E in lilla quelle che avrebbero dovuto essere gestite meglio. Così ci rendiamo “visivamente” conto dello spazio sulla pagina che è stato sprecato.

Nadear la Bianca: case in malta e pietre a secco, dai tetti di tegole rosse.
Nadear la Bianca: una stretta manciata di viuzze lastricate in pietra, cavata dalle sponde del lago su cui si specchia, che si era tinto di rosso durante la battaglia di Levot, quando Uruk il Possente e i suoi quattromila orchi guerrieri avevano cinto d’assedio la città.
Nadear la Bianca: un cerchio robusto di mura candide, protette a loro volta da folte macchie di ginepro e rovi. Rovi disposti ad arte, per convogliare le truppe assedianti nei punti più congeniali ai difensori, che possono colpirle con frecce e verrette, scariche di mitraglia e olio bollente, per poi lasciare che le micidiali colonie di rose-vampiro, arbusti arcieri e viticci strangolatori celati all’interno dei cespugli completino il lavoro.
Tutto questo può sembrare pericoloso? Certo che lo è! Ho forse detto che Nadear la Bianca sorge in un luogo tranquillo?
Forse entro le sue mura si può godere di una relativa sicurezza, ma fuori di esse vita e morte si scontrano senza sosta in un duello dall’esito incerto sino alla fine.
Molto lontano dalle mura di Nadear, verso nord,
si apre una vasta pianura rocciosa, sterile e ancor più pericolosa: le Brulle. Essa separa i Principati di Malichar dal resto delle terre conosciute.
Quattro amici stanno attraversando questa terra selvaggia e aspra, diretti a sud dopo una lunga e infruttuosa ricerca nei Principati.
I loro nomi, dopo la sconfitta di Uruk il Possente, sono leggenda: Flantius Mijosot detto Colle Ondoso, Robaln Steinherz il Nano,
Lantharas il mezz’elfo e Tharn l’invitto.
Il loro viaggio sta per concludersi, ma ancora non lo sanno.
Solo uno di loro, per motivi del tutto diversi, sa che la sua fine è prossima: si tratta di Flantius che trova conforto stringendo il suo lungo bastone in legno-ferro.
Ad una estremità dell’asta, lunga un metro e mezzo, sporge un micidiale rostro d’acciaio, mentre la cima è adornata da un drago
d’oro puro, cesellato nell’atto di spiccare il volo. Gli occhi del drago sono due zaffiri perfetti, e stanno brillando di un’intensa luce azzurra resa ancora più evidente dal sole ormai prossimo al tramonto.
Nel bastone vi è la dimora di Qar, un elementale dell’aria, che da anni è il custode arcano di Flantius. La magica creatura tenta di infondergli coraggio: «Amico mio, hai avuto una vita lunga e soddisfacente. La morte è solo un istante, tra i numerosi e straordinari che hai vissuto!»
La voce di Qar è un rapidissimo sussurro tra i pensieri di Flantius, che comprende bene il senso di quanto gli viene suggerito, ma si aggrappa alla vita come un naufrago al relitto della sua imbarcazione. Sa di non essere pronto per intraprendere l’ultimo viaggio, anche se sta per raggiungere il duecentesimo compleanno.

Guarda gli amici, i compagni che da oltre un secolo sono i suoi inseparabili fratelli. È triste, ma anche risoluto: le sue ricerche lo hanno portato ad un passo dal rinviare all’infinito la fine della propria vita.

È sulle tracce del più grande mago che sia mai comparso tra le terre di Tharamys: Yor.

Dopo una ricerca durata mesi, durante la quale ha visto il tempo a propria disposizione ridursi inesorabilmente, finalmente ha trovato qualcosa di concreto. Un orco di nome Geneißer. L’ultimo essere ancora in vita che ha avuto contatti con Yor da vivo.
Ed è per cercare Geneißer che ora si trova davanti ad un avvallamento nel suolo roccioso e arido delle Brulle meridionali,
una decina di miglia a nord dal confine Kireziano. Il fondo della conca si trova una decina di metri più in basso, ed è occupato da
otto scorpioni giganti che se ne stanno immobili. Poco più in là, lungo la parete più ripida, si apre una scura caverna. Oltre il bordo della conca, lungo l’orizzonte basso e grigio, la luna immensa, rossa e minacciosa, sta sorgendo.
«Ci siamo», dice l’anziano mago ai suoi amici, «gli orchi che stiamo cercando sono lì dentro. Geneißer è con loro.»
«Se sei sicuro che sia necessario», gli risponde Tharn, mentre valuta gli scorpioni, «io sono pronto» e scende dalla sua cavalcatura.
«Sento profumo di orchi», dice Robaln mentre smonta da cavallo e impugna lo spadone, «Tharn, puoi liberare l’ingresso, per favore?», la voce del Nano è tranquilla, anche se ha appena chiesto al suo amico di passare a fil di spada alcuni scorpioni giganti, con lo stesso tono gentile con cui un comune mortale siede a tavola e chiede che gli venga passata la brocca del vino.
Lantharas è l’unico che mostra segni di incertezza e ne parla apertamente con Flantius.
«Io proverei a chiedere, senza inutili spargimenti di sangue: finora nessuna delle informazioni che hai ottenuto si è rivelata molto utile…»
«Inutile? Uccidere orchi non è mai inutile!» lo interrompe Robaln che comincia a manifestare una certa impazienza: sente puzza d’orchi e tutto il suo corpo trasmette l’urgenza di eliminare qualche altro centinaio di “Kelfer”, porcellini, tanti ne ha fiutati.

Thalanras è infastidito dall’interruzione e lo lascia capire sbuffando: «Vogliamo parlare allora del buco nell’acqua ottenuto a Malichar?»
«Si, dovevamo decapitare quel… come si chiamava? Tuermag?» lo rimbecca subito Robaln, che comincia a camminare da fermo per
sgranchirsi.
«Tuerdrag, Etienne Tuerdrag» puntualizza Lantharas, con finta condiscendenza «che è ancora furioso per i disastri che Yor ha causato, vendendo il proprio reame a suo nonno, il principe Laiton Tuerdrag III, pochi anni prima che il vulcano esplodesse… una truffa colossale, se ci pensi.»
«E poi non contento gli ha anche ammazzato il padre»
commenta Flantius, profondamente rattristato per quelle notizie «Non mi sarei mai aspettato un comportamento tanto violento da parte di Yor»
«Anche tu, Flantius, hai torturato e ucciso un orco e…» lo riprende Lantharas, senza più alcun freno sulla lingua.
«Era necessario», lo interrompe Flantius, intento anche lui a valutare scorpioni e ingresso, «invece di rispondere alle mie domande, quella bestia ha tentato di ucciderci!»
«Cosa ti aspetti da un orco quando gli punti addosso un’arma? Anche col principe Etienne Tuerdrag, se avessimo usato un tono più diplomatico…» lamenta il mezz’elfo che gira la testa verso la caverna.

«Ignoro il motivo per cui un mago potente come Yor, che si dice abbia combattuto contro orde di orchi, abbia poi voluto averne alcuni tra i suoi discepoli. Quello che conta è che alcuni sono rimasti e sono ancora vivi per raccontarmi tutto quello che sanno… e lo faranno!» Flantius è saldo, determinato e assolutamente certo di ottenere altre preziose informazioni.
Dal bastone, Qar percepisce tuttavia un’emozione che è ben lontana da quanto l’uomo va mostrando. Sa che Flantius è disperato, e sa anche che la loro unione è destinata a concludersi.
Prova una grande pena per il suo amico dalla vita breve, ma come sempre, evita di guardare nel futuro di tutti: gli procurerebbe solo noie, nel caso migliore, e guai seri in quello peggiore.

Ha appreso da tempo che il futuro non è scritto: quello che tutti chiamano futuro è solo una probabilità, inconsistente quanto una nuvola e altrettanto capricciosa.
Qar sa bene che rivelare informazioni riguardo un evento, altera
le probabilità che si realizzi. Il paradosso è che se l’evento è positivo le sue probabilità di avverarsi diminuiscono, la nube diviene più piccola o svanisce del tutto. Se l’evento è negativo, di solito si trasforma in una tempesta. Troppe volte, in passato, ha cercato di salvare qualcuno dal proprio destino, o ha tentato di favorirlo raccontando gli eventi futuri. Ha imparato dai propri errori: sceglie di non guardare e lascia parlare Thalanras.

«E se fosse un altro buco nell’acqua, nella lava o in qualsiasi altro materiale tu desideri? Io dico: entriamo e chiediamo, se poi ci attaccano a vista ci divertiremo un po’ o avremo la possibilità di…»
«… di scappare, mezz’elfo codardo?» lo rimbecca Robaln, provocandolo.
«Di andarcene subito e risparmiare tempo e incantesimi, o almeno potevamo farlo fino a un attimo fa», ribatte il mezz’elfo, impugnando l’arco che porta sempre appeso alla schiena insieme alla faretra.
La sua espressione è cambiata all’istante ed ora è corrucciata, il suo sguardo punta diritto verso il fondo della conca, i suoi muscoli si tendono d’istinto.
Robaln smette di punzecchiare il suo amico e si volta di nuovo verso la caverna.
«Qualcuno sta uscendo» commenta Tharn, laconico.
«Più di qualcuno» gli fa eco Robaln, che gongola mentre comincia a contare, «unoduetrequattro… ventitré e ventiquattro! Mago, spera che i tuoi incantesimi siano più veloci della mia spada, perché oggi mi coprirò di gloria!»
«Strano modo hai di chiamare le budella di orco» ribatte Lantharas mentre incocca una freccia.
Flantius osserva un nutrito gruppo di orchi che sta sciamando fuori dalla caverna. Non sono tanti, ma sono grandi quasi il doppio
di quelli che normalmente assaltano le carovane che viaggiano tra Malichar e Kirezia, ben corazzati e armati delle loro micidiali asce doppie.
I due gruppi si fronteggiano per qualche istante, lo scontro imminente è impari eppure nello sguardo dei quattro amici non c’è paura, né incertezza: Tharn impugna le sue armi, Lantharas prende la mira, Robaln sorride dietro la sua folta barba color basalto. Altri due orchi escono e raggiungono i compagni, ma sono molto diversi: non sono solo grossi, sono anche grassi e indossano una tunica nera con un grande artiglio rosso dipinto sul petto.
«Fate attenzione ai due in retroguardia», li avverte Flantius, «sembrano utenti di magia, anche se non ho mai visto orchi capaci di scagliare qualcosa di più complesso di un dardo magico.»
«So-rip!» grida Lantharas, mentre scaglia la prima freccia che a metà traiettoria si ricopre di rune luminose e un istante dopo esplode a meno di un metro dalla prima fila di orchi. Gli orchi investiti dall’esplosione vengono scagliati lontano, privi di vita.
«Non vale!» grida Robaln mentre è già in carica.
Tharn è al suo fianco con le spade in pugno, e sorride pregustando lo scontro imminente. Indossa una corazza leggera, in scaglie di drago nero. Le lame che brandisce brillano e riflettono tanto la luce del sole al tramonto, quanto quella della luna che sorge.
Le rune incise sulle lame prendono vita e lasciano vistose scie luminose blu e rosse nell’aria.
Lantharas incocca un’altra freccia. Flantius alza il suo bastone. I due orchi in retroguardia si prendono per mano, e intonano una litania dai suoni gutturali.
«Quei due stanno per lanciare un incantesimo, non so cosa sia, ma percepisco le loro aure: ottavo circolo di potere
Qar è preoccupato e alla velocità di un pensiero trasmette tutto questo a Flantius.
Il vecchio mago impiega poche frazioni di attimo per afferrare la gravità e decidere di fuggire: ormai conosce il luogo e può tornarvi con la magia in qualsiasi momento.
Gli incantesimi del settimo circolo sono rari, ma quelli dei circoli superiori sono veri e propri segreti di stato, incanti capaci di sollevare montagne e sprofondare regni. Non ha idea di come possano, due orchi, essere in possesso di una simile conoscenza,
ma, mentre formula le sillabe di attivazione dell’incantesimo di ritorno istantaneo, si rende conto di non avere nulla di adeguato.
Il cuore accelera e i folti capelli bianchi si rizzano sulla nuca del vecchio mago mentre completa l’attivazione del ritorno su tutto il gruppo.
Un attimo di troppo.
Un lampo di tenebra inghiotte ogni cosa, tranne la luce rossosangue della luna piena ancora bassa all’orizzonte.
Un istante dopo, Qar si ritrova nelle tenebre più fitte, da solo: di Flantius e dei suoi amici non c’è più alcuna traccia.

Perché mi son data così pena e ve l’ho smenata così tanto per questo prologo?

Perché questo evento è fondamentale per costruire l’EMPATIA per i personaggi. Deve essere un gancio, denso di emozione, che spinge il lettore a voler ritrovare i personaggi dispersi. O ad aprirsi alla possibilità che questo possa avvenire.
Infatti, da una parte abbiamo il gruppo di Flantius e la loro sparizione, dall’altra Conrad che incorrerà nelle tracce utili per riaprire la possibilità di recuperarli (almeno in parte).
Sono i due poli narrativi del racconto e devono essere ben magnetizzati se vogliamo attirare i lettori all’interno della storia.

Se questa parte non viene gestita bene, crolla di fatto anche la propulsione che muove l’interesse rispetto a ciò che farà Conrad.
Se me ne frego della sorte di Flantius e Qar, il percorso di Conrad è mutilato. Se non ci importa che fallisca o meno, l’intero antefatto diventa inutile, venendo declassato a INFODUMP a sua volta.

Per essere una parte organica della storia, DEVE funzionare al massimo.

Per questo ho bisogno di sapere qualcosa in più, non quantitativamente ma qualitativamente. Ho BISOGNO di avere informazioni MIGLIORI e più MIRATE, oltre che inserite meglio.
Voglio sapere perché Flantius non vuole morire. Cos’ha di irrisolto da attaccarsi così alla vita dopo duecento anni? E perché i suoi compagni lo assecondano? Sono coinvolti a loro volta in qualcosa di più grosso di loro?

Se non necessariamente devo avere “tutte” le informazioni al riguardo, devo avere almeno delle SUGGESTIONI che mi lascino comunque delle domande in merito. Deve trapelare la grana di quelle informazioni, e devono essere fornite nel migliore dei modi.
Non serve a nulla tutta la ricerca maniacale e minuziosa fatta, se poi la spreco inserendola nel modo sbagliato.
Ne va della fruizione totale del racconto.

Le prime pagine di una storia devono creare un numero sufficiente di domande nel lettore: è quello che lo spingerà a girare le pagine per trovare le risposte.

E non sarà la collocazione di Nadear la Bianca a farlo, ma il ponte emotivo che l’autore sarà riuscito a creare fra i personaggi e il lettore.

Proviamo a ripensare tutta questa scena in modo più organico e funzionale, in base alle informazioni ricevute dall’autore.
Come avrete visto, le parti in giallo non sono poche, ma le parti in viola sono quelle su cui possiamo lavorare, e da cui possiamo trovare qualcosa da sfruttare al meglio.

Partiamo da questo concetto: il modo giusto di inserire le informazioni, una volta che abbiamo capito che l’INFODUMP è un errore, è affidarsi all’INCLUING.
Che semplicemente significa disseminare degli indizi che ci aiutino a orientarci e a estrapolare ciò che ci serve per comprendere la scena che stiamo fruendo, e, più ampiamente, la storia che stiamo fruendo.

In una narrazione dinamica, le informazioni ci vengono fornite come parte di un contesto più alto. Il WORLDBUILDING diventa silente e noi sfruttiamo lo stesso meccanismo che il nostro cervello usa per decodificare la realtà che lo circonda.
Siete mai entrati in una stanza capendo che c’era un’atmosfera strana, senza sapere di preciso perché, ma sapendo di sicuro che fosse così?
Ecco. Qui vale la stessa logica.

Dev’esserci una sorta di divisione dei piani di fruizione. I personaggi veicolano informazioni, scambiandosele fra di loro.
I loro gesti ne veicolano altre. Gli oggetti con cui interagiscono altre ancora. Lo spazio in cui si muovono, altre ancora, diverse da tutte le altre.

Quindi, ponendoci un obiettivo per questa scena, pensiamo a tutte le strategie utili che possiamo sovrapporre per fare in modo che l’OBIETTIVO emerga.

I nostri obiettivi sono:

  • Creare un ponte emotivo forte con i personaggi, tale che ci interessi veramente molto la loro sorte.
  • Creare un’atmosfera di “contrapposizione” fra speranza e declino, che ci conduca a dare valore alla costanza che i quattro personaggi dimostrano d’avere nel perseguire qualcosa che sembra insperato.
  • Introdurre i personaggi a dovere, specialmente FLANTIUS e QAR.
  • Scegliere un narratore adeguato a raccontare la vicenda (ma su questo ci torniamo dopo aver impostato la dinamica della scena);
  • Introdurre il mondo in cui si muovono.
  • Rendere chiaro il conflitto che li muove.

Tanta roba?
Si può fare.

Allora.

Ripartiamo dalla faccenda del tramonto. Abbiamo detto che non ci serve solo a collocare nel tempo lo svolgersi della vicenda, ma che potrebbe anche aiutarci a veicolare quel senso di conclusione, di notte e oscurità in avvicinamento, di termine di un viaggio.
Quindi, l’idea dell’autore di ambientare la scena al tramonto era buona. Va solo gestita in modo che questo particolare diventi SIGNIFICATIVO.
E, per farlo, potremmo mettere un accento su di esso, utilizzando i quattro personaggi che abbiamo in scena.

I quattro personaggi stanno cavalcando nelle Brulle, al tramonto. Sentiamo gli zoccoli e il rumore dei finimenti mentre parlano fra di loro. Vediamo il modo in cui sono bardati i personaggi. Vediamo il percorso impervio che stanno facendo, o quanto si stiano spingendo oltre la soglia della ragionevole prudenza anche per chi è abituato a viaggiare, perché dobbiamo capire che quella conca non è esattamente un luogo in cui una qualsiasi persona può “inciampare” per sbaglio, sennò chiunque l’avrebbe trovata prima (o ne saprebbe qualcosa). Li vediamo impolverati, anche stanchi, ma di una stanchezza a cui sono avvezzi, che conoscono, vivono e accettano.
In questo momento, in cui la TEMPERATURA della scena è BASSA, possiamo permetterci di osservare come le scaglie dell’armatura riflettano la luce rossastra del tramonto. Possiamo utilizzare il sole come punto di riferimento per i personaggi per non perdere la direzione da seguire, e possiamo fare in modo che l’interazione fra i personaggi ci faccia capire il loro stato d’animo in merito a tutte le cose menzionate. In modo dinamico. Quindi inserendole in un conflitto. Mentre qualcuno pensa che non è esattamente una buona idea proseguire ulteriormente e che dovrebbero almeno fermarsi per accamparsi per la notte, alcuni di loro possono essere entusiasti e speranzosi, nonostante siano in viaggio da un po’. Deve trasudare, comunque, che sono felici di essere insieme e che si fidano l’uno dell’altro. Le parole che si dicono devono essere cruciali in questo, seppur trasversali. Canzonatorie, magari, ma dense di rispetto reciproco. Devono farcelo intendere senza dircelo direttamente.
E anche qui serve un conflitto; si potrebbe prendere la riluttanza di Lantharas e sfruttarla allo scopo. Può essere titubante sia in relazione al modus operandi che hanno tenuto precedentemente, sia in relazione a quello che vorranno tenere; e anche rispetto al fatto che quella che sorgerà sarà una luna rossa. Pessimo presagio per la sua gente. Per dire.
Magari è proprio l’idea del tramonto a fargli dire che, forse, dopo tanti buchi nell’acqua, è il caso di rinunciare.
Ed è qui che gli altri devono provare la loro buona fede e la loro dedizione. Nel modo in cui cercano di distoglierlo da questo pensiero ci devono comunicare quanto tengano a Flantius e al motivo per cui non possono arrendersi.
E magari Flantius potrebbe farci capire che è meno egoista di quello che abbiamo creduto, perché onestamente Lantharas potrebbe avere ragione, e forse non vale la pena che lui, per sé stesso, conduca ulteriormente i suoi amici in questa avventura. A quasi duecento anni è una considerazione che può saltare alla mente.
Magari Flantius potrebbe dare ragione a Lantharas e magari, di nuovo, il resto della compagnia potrebbe invece spronarlo a proseguire, nonostante la scoperta contraddittoria e inaspettata su Yor, sul fatto che avesse avuto a che fare con gli orchi; cosa che non si sarebbero mai aspettati da lui.
In questo modo, Flantius viene sollevato da ogni responsabilità personale per ciò che avverrà in seguito, ma ci teniamo comunque il dubbio che Lantharas potrebbe non avere tutti i torti.

(Ma dobbiamo ricordarci che non basta avere un CONFLITTO per rendere credibile questa interazione fra i personaggi. Il conflitto va gestito bene, va reso “naturale” per loro, perché abbiamo visto che, personaggi che si battibeccano su cose che non servono, non giova moltissimo, e anzi penalizza l’attenzione.)

Coooomunque, cominceremmo a vedere davvero quel tramonto come un possibile tramonto sul loro viaggio, e quella luna rossa come un vero presagio. Abbiamo dato ai personaggi la possibilità concreta di fermarsi prima del baratro e li abbiamo visti scegliere di non farlo, per mettere davanti alla loro incolumità uno scopo più alto, in cui credono tutti. Persino Lantharas che è più prudente degli altri e li sta invitando a non esporsi in un momento in cui potrebbero essere vulnerabili.
Avremmo comunque creato un’aspettativa riguardo a ciò che potrà avvenire, stendendo un velo di inevitabilità e pericolo, ma senza aver coinvolto il narratore in prima persona a fornirci quell’anticipazione.

Arrivati nel luogo designato potremmo lasciar dire a Robaln che effettivamente sono nel posto giusto perché fiuta gli orchi. E gli scorpioni giganti a guardia potrebbero ribadire il concetto.
Lì, le interazione fra i personaggi potrebbero farci capire che davvero sono valorosi e capaci, perché potrebbero iniziare a valutare come intervenire. Senza essere troppo disturbati dalla minaccia che la loro presenza incuterebbe a tutti gli altri.

(Perché non è tanto cosa metti in scena, ma il modo in cui i personaggi ci si relazionano che comporta le giuste considerazioni nel lettore.)

A quel punto, la tensione sulla scena si sarà alzata grazie all’imminente pericolo e all’aver compreso qual è la posta in gioco per i personaggi, e nel lettore ci sarà il bisogno di vedere i personaggi trionfare, anche se il presagio della luna rossa sta incombendo, anzi, proprio perché il presagio della luna rossa sta incombendo.
Hanno superato tanto, hanno uno scopo forte, lo riteniamo uno scopo valido, vogliamo che il loro valore superi anche questa prova.
Così, bando alle ciance, ci rimane l’azione. Il ritmo si è fatto teso e incalzante, i personaggi entrano nel conflitto armato, tirano giù qualche scorpione, uccidono alcuni orchi. Sono coperti di sangue altrui e magari anche un po’ strinati, ma reggono. Sono convinti di potercela fare, sono una buona squadra rodata, si deve percepire dalle loro interazioni che lo sono. Cominciano ad annusare la vittoria; vogliamo veder estorcere le informazioni all’orco Geneißer, vogliamo la chiave per aiutare Flantius.
E invece, trac!, qualcosa non va. La nostra aspettativa viene ribaltata. Quando vediamo uscire i due tizi intonacati capiamo che l’euforia non è ben riposta, che la luna rossa era davvero un presagio. Che il tramonto sta arrivando.
Che nessuno di loro può impedirlo.
Che sono stati avventati.
Che Lantharas aveva ragione.
Che l’invito di Flantius ad ascoltarlo era sensato.
Che la dedizione dei suoi amici è stata eroica, ma che adesso si sono infilati in una situazione che è molto peggio del previsto.

È rimasto solo Qar. Da solo, nel buio.
Colui che avrebbe potuto sbirciare nel futuro e non l’ha fatto, e che si terrà questo rimpianto per mooolto tempo. Colui che sente il suo amico lamentarsi per il dolore, senza sapere dove sia.
E il resto della combriccola diventa un manipolo di vittime valorose della fedeltà a una causa, e a Flantius.
E tutto ci dice che non è giusto, che avrebbe dovuto finire in maniera diversa. Che abbiamo bisogno di capire che per loro c’è speranza.
Ma, quando il lettore gira la pagina, quello che trova è la scritta: “400 anni dopo”. E questo ci dice irrimediabilmente che quel ragazzino è la chiave di “qualcosa”, e che è molto importante che lo seguiamo nella sua avventura, perché deve essere legato senza dubbio a ciò che abbiamo visto nella scena precedente.
Adesso le nostre speranze per Qar e il gruppo di Flantius sono legate a Conrad.

Cosa abbiamo fatto?

Abbiamo solo preso le informazioni precedenti e le abbiamo messe in punti più strategici.
Abbiamo alleggerito la parte del combattimento, in cui la temperatura è alta, privilegiando l’azione alle chiacchiere.
Abbiamo dato valore al tramonto. Abbiamo sollevato Flantius da una colpa “morale”. Abbiamo suggerito il legame che tiene unito il gruppo e il loro valore.
Abbiamo inserito i particolari in modo più organico, dove il cervello riesca a incamerarli meglio.

Ora rimane “solo” da scrivere la scena con questo criterio. Con una scrittura vivida e percettiva che possa evocare tutto il necessario.
E non è l’editor che dovrà farlo. Sarà eventualmente l’autore a ragionarci sopra, a rimboccarsi le maniche e a battere i tasti sulla tastiera.

E questo comporta un’altra domanda: “Da quale punto di vista narriamo la scena?”.

Ok. Abbiamo detto che quel narratore onnisciente e invadente non va esattamente bene, perché inzacchera un po’ troppo la scena.
Se vogliamo che la scena abbia un taglio più vivido possiamo fare due scelte:

  • scegliere un punto di vista focalizzato all’interno di Flantius, per poter fruire anche la voce di Qar;
  • scegliere l’unico personaggio che può avere un punto di vista invadente e, se non onnisciente, sicuramente onnipresente: Qar.

Qar potrebbe mantenere lo stesso timbro invadente (ma più adeguato), potrebbe darci i suoi pensieri e potrebbe darci le sue considerazioni.
Potrebbe essere una voce di secondo livello nella narrazione perché (MEGASPOILER) è previsto che lo sia, proprio dall’autore.

Alla fine del racconto, ci rendiamo conto che buona parte di ciò che abbiamo letto, in qualche modo, è stato orchestrato da Qar per uno specifico motivo: darsi la possibilità di salvare Flantius.

Quindi, nulla ci vieta, e anzi sarebbe quasi d’uopo, che capissimo subito che chi ci sta raccontando la storia ne sa molto perché “c’era”. Sia 400 anni prima che 400 anni dopo.

Se volessimo proprio caricare questa sensazione, potremmo proprio giocarci sopra. E dare a Qar dei rimorsi per non aver agito preventivamente, per aver lasciato che accadesse ciò che è accaduto. E mettergli in bocca, piano piano, gradualmente, il fatto che ha pagato caro il suo errore e la speranza che ciò che ha compiuto possa, se non redimerlo, metterlo nella strada giusta per riavere il suo amico.

Se il racconto si aprisse su una frase che suona più o meno così:

Sono tanto solo… ma non lo sarò per molto. Stavolta non sono ammessi sbagli.

avremmo una voce che parla di qualcosa che gli sta molto a cuore.
Che ha un nodo con sé stesso da sciogliere. E che farà di tutto per rimediare.
Da quella voce lì saremmo disposti a farci raccontare la storia con una certa dose di invadenza, ma con indubbia autorevolezza. Perché non sarebbe un narratore EXTRADIEGETICO ingombrante. Ma sarebbe un narratore OMODIEGETICO (cioè interno alla narrazione), che può narrare plausibilmente in terza persona delle vicende perché le ha vissute in una posizione che è sia esterna che interna.
Ci deve raccontare come abbia architettato tutto per (MEGASPOILER) farsi trovare da Conrad e perché ce n’è così bisogno.
A questo punto, non ci importerebbe più se la voce narrante non è adeguata a quella di un ragazzino di dodici anni.
Perché Qar di sicuro non ha quell’età.

Quindi, ricapitoliamo un po’ ciò che ci siamo detti:

  • Le informazioni vanno distinte fra NECESSARIE e INUTILI. Quelle necessarie non riguardano solo la narrazione spicciola, però; anche se devono darci l’idea di un mondo narrativo consistente e credibile, non devono prendere il sopravvento. Il RUMORE della storia e il suo COLORE servono, ma bisogna imparare a scegliere gli elementi che valorizzano la storia invece che penalizzarla. Tutte le informazioni di WORLDBUILDING sono comunque al servizio della storia e non fini a loro stesse.
  • Le informazioni utili vanno inserite in modo dinamico, attraverso indizi significativi. Va trasformato l’INFODUMP in INCLUING. (Avevamo parlato dei DETTAGLI SIGNIFICATIVI anche in L’IMPORTANZA DI UN DETTAGLIO SIGNIFICATIVO.)
  • Ogni elemento della narrazione deve concorrere a creare una specifica SUGGESTIONE NARRATIVA. La pianificazione della scena, gli elementi con cui i personaggi interagiscono, le interazioni fra i personaggi, le parole che si dicono, la temperatura della scena in ognuna delle sue parti, gli elementi spaziali e temporali: tutto concorre a creare quella specifica suggestione.

E, a proposito di questo, non vale solo per i testi, ma anche per i PARATESTI.

Bisogna valutare molto bene l’inserimento di note, e valutare molto bene anche come si presenta il prodotto-libro in sé.

Anche la copertina, come tutte le parti del libro, deve concorrere a potenziare l’idea di “quella” specifica storia. (Potete approfondire nell’articolo: QUARTA DI COPERTINA: COS’È? COME SI SCRIVE?.)

Per questo, vorrei far presente che anche la copertina di questo racconto forse non è esattamente adeguata allo scopo. È ingannevole e non esattamente aderente alla storia narrata.
Quello che ci dà è solo la suggestione di un giallo, ma ci fuorvia da tutto il resto degli elementi fantastici e Middle Grade che dovrebbe avere. Lo stesso mistero e la stessa suggestione di ricerca potevano essere messe in scena più efficacemente. Con una scelta di colori e una composizione diversa.

Per esempio, si poteva pensare di mettere Conrad davanti all’imbocco di una piccola caverna buia, mentre guarda al suo interno, indeciso se entrare o meno.
Un po’ perché sarebbe stato un richiamo alla prima caverna che vediamo (quella in cui vorrebbero entrare Flantius e tutta la combriccola), un po’ perché è esattamente il luogo in cui il bambino si va a cacciare a sua volta, per scoprire qualcosa di Flantius da far riemergere.

Infatti, (MEGASPOILER) la seconda parte del racconto parla di come Conrad, accusato di aver mangiato una crostata (che però non ha toccato), segua i resti del piatto rotto della torta fin dentro la caverna, per scoprire sia i colpevoli di quello e altri misfatti, sia la vecchia abitazione di Flantius in cui si trova anche Qar.

La caverna poteva legare insieme, anche visivamente, i due poli del racconto. Un solo elemento capace di fare da collante, acquisendo e caricandosi di molteplici significati.

Quindi una sola caverna, a simboleggiare l’entrata di un passaggio al MONDO STRAORDINARIO per i personaggi, diventava il CORRELATIVO OGGETTIVO per valorizzare e connettere: mistero, avventura, segreti sepolti, fallimento, coraggio, imprudenza, pericolo, giustizia, riscoperta e rivelazione.
Ma solo se usata bene. Sia all’interno della storia che al suo esterno.

(A ribadire il concetto che ogni elemento della storia dovrebbe avere un peso specifico; mirato e concreto. Lasciamo sedimentare bene questo concetto nella mente…)

«Ok. Quindi il resto del racconto com’è?»

Ecco. Parliamone.

Non sono solamente gli elementi stilistici già analizzati a non avermi convinta molto. Ma anche lo spreco di quelli a cui ho appena accennato.

Anche il resto del racconto, ovviamente, subisce la stessa pecca nella gestione delle informazioni e nella PROGETTAZIONE delle scene.

Per esempio, c’è un altro dialogo, fra Conrad e il suo tutore, che fa il paio con quello già visto prima, in cui l’autore coglie l’occasione per inserire informazioni sul suo mondo. (E ce n’è anche un altro, fra il padre di Conrad e il tutore a rimarcarlo ulteriormente… ma vabbè.)

Lo spunto iniziale sarebbe anche buono, e il pretesto pure.
Quale migliore evenienza di un’interrogazione scolastica per poter ottenere informazioni precise e corrette dalla bocca di uno dei personaggi?
Ma, anche lì, viene un po’ pasticciato perché soffre di un’artificiosità che non giova.
Mi spiego.
Quel dialogo è perfetto per caratterizzare i personaggi che parlano: del tutore mi dice quanto sproni Conrad al sapere, di Conrad mi dice quanto sia sveglio il ragazzino e quanto sia conscio dell’ambiente in cui vive.
Mi può dire anche qualcosa del rapporto che lega i due personaggi; di cosa pensi Conrad dello studio; della responsabilità che il tutore crede di avere nei suoi confronti; della confidenza che c’è fra loro. Insomma, può darmi un sacco di informazioni UTILI.

Ma, se percepisco che viene portato avanti “solo” per darmi informazioni sul mondo circostante, c’è uno spreco. E la perdita di fuoco sulla scena che stiamo fruendo.

È come se, per l’autore, l’ago della bilancia pendesse sempre verso la necessità di snocciolare nozioni sul suo MONDO NARRATIVO e basta, scordandosi del resto.

Di base, un dialogo non assolve mai solamente un compito: non è mai SOLO informativo, SOLO caratterizzante, SOLO tematico o SOLO narrativo.
Come ho già detto, le INFORMAZIONI VANNO OTTIMIZZATE.

Un dialogo può – e deve – assolvere molti compiti contemporaneamente. Esattamente come deve farlo una scena e, in modo più ampio, ogni capitolo e svolta della storia.

Per tutto il resto del racconto si percepisce che a monte, nella testa dell’autore, c’è la ricerca di una struttura narrativa coerente e stabile. Come ho già detto: Andrea Venturo ha fatto i suoi compiti.

Quello che non ha fatto è stato valorizzare gli elementi che aveva a disposizione. Costantemente. Al punto di invalidare la suggestione globale del fruitore, che si chiude l’ultima pagina alle spalle insoddisfatto e senza la voglia di saperne di più.

Se non è un peccato questo, non so cosa lo sia…

E spero vivamente che riesca a trovare il modo di correggere i suoi errori, perché ha già molti degli strumenti utili nella sua CASSETTA DEGLI ATTREZZI. Deve solo capire come vadano utilizzati al meglio.

E, a proposito di questo, visto che lo abbiamo accennato anche prima, è giusto parlare di ciò che tiene legate le parti di ogni storia ben scritta.
E di cui soffriamo un po’ la mancanza qui, nel momento in cui ci poniamo questa domanda: cosa vuole raccontarci davvero l’autore con Il torto?

Perché, alla fine del racconto, è proprio l’impossibilità a trovare una risposta convincente a farci storcere il naso. E a farci scivolare via di dosso questa storia, insieme alla curiosità di proseguire la lettura.

Vediamo se riesco a spiegarmi.

Abbiamo detto che tutto ciò che mettiamo in scena deve avere un significato ben preciso. E che non è giusto “sprecare” gli elementi che inseriamo nella narrazione.
Ma anche la narrazione stessa di una storia ha il suo significato intrinseco.
L’autore ci racconta qualcosa per parlarci di qualcos’altro. La usa come la metafora di “qualcosa” di espresso indirettamente. Qualcosa che ci induca a pensare. Qualcosa che ci faccia riflettere o emozionare.
Qualcosa che abbia attinenza con il “nostro” essere individui.

Con le scelte che fa, l’autore attua una selezione di “verità” che sente di voler promuovere, negare o esplorare.

Quindi, un fatto espresso in una storia non è semplicemente un fatto espresso: si porta dietro un bagaglio di simboli e significati a sua volta.
E quei significati, tutti affiancati, sono capaci di creare un senso emotivo di coinvolgimento. Risuonando e riverberando fra di loro, traspirano letture stratificate di una storia.
Come il tema centrale di una colonna sonora che ritorna, in tante declinazioni diverse, per tutta la lunghezza del film. A sottolineare certi passaggi, con sfumature ed entità diverse.

Per esempio, la morte di Mufasa, ne Il Re Leone, non è solo la morte di un leone. Non è solo il Trauma (sì, l’ho messo maiuscolo) di una generazione di bambini che l’hanno visto. Per Simba, quella morte significa la perdita di un punto di riferimento. La perdita della sicurezza. La perdita di un branco. La perdita di un posto proprio nel mondo. L’arrivo della solitudine, del pericolo, dell’ignoto, del senso di colpa.
Ma anche la promessa della possibilità di autodeterminazione. Del guadagnarsi il rispetto e l’onore che un vero re dovrebbe avere.

Eppure, è solo morto un leone.

In ogni buona storia, niente è mai SOLO qualcosa.

È proprio lì che risiede il suo fascino.

Quindi, ripetiamo di nuovo: “Cosa vuole raccontarci davvero l’autore con Il torto?”.
Vale la pena di pensarci, perché questa domanda in genere se ne porta dietro molte altre.

Qual è la verità che vuole far emergere?
Perché Conrad è designato a trovare Qar?
Perché lui l’ha scelto?
L’ha fatto per un motivo specifico in relazione a ciò che è accaduto a Flantius?
E Flantius cos’ha di irrisolto?

Ma soprattutto, quello che dobbiamo capire è questo: qual è il TEMA che questo racconto affronta davvero?
L’importanza della capacità e del coraggio? Della determinazione?
Del non arrendersi? Dell’onestà?
Qual è il vero “torto” a cui si riferisce il racconto?

È solo il piccolo pretesto che funge da INCIDENTE SCATENANTE alla storia (Conrad viene accusato di aver mangiato una torta che non avrebbe dovuto toccare) o abbiamo una lettura più stratificata?

Vuole mettere in contrapposizione lo sbaglio fatto da Flantius, nel perseguire qualcosa che non avrebbe dovuto, con il percorso di ricerca di Conrad?

Qual è il VERO OBIETTIVO dell’autore?

Senza sapere o percepire qualcosa di tutto ciò che ho menzionato, avremmo solo la narrazione di una vicenda che non ci lascia nulla. Nessun interrogativo morale. Nessuno spunto di riflessione.

Alla fine della fruizione, ci lascia solo con un: “Ah, ok. E quindi?”

Ma “Ah, ok. E quindi?” non ci dà la spinta necessaria per volerne ancora. Ha il sapore dell’indifferenza, più o meno vaga, che subodora di delusione e aspettative non ripagate.

Quindi, ripensiamo concettualmente alla nostra prima scena e cerchiamo di capire PERCHÉ ci è stata “mostrata”. Cosa voleva dirci davvero l’autore? Qual è il suo significato nascosto?

Dovremmo saperlo perché, con tutta probabilità, quello che viene dopo dovrebbe provare a raddrizzare quello che è avvenuto nell’antefatto. Non solo con le azioni, ma mettendo in campo una serie diversa di VALORI in CONFLITTO. Che ci donerà la giusta esplorazione tematica del racconto.

Quindi. Che VALORI vengono messi in conflitto nella prima scena?
Perché?

(Sì, gli editor fanno un sacco di domande. È uno dei loro compiti principali.)

Spero fortemente che non sia un caso che Conrad entri a sua volta in una caverna, anche se non è la stessa in cui voleva entrare Flantius.
Perché da un parte abbiamo un fallimento dato da una motivazione che non riusciamo a percepire come “giusta” e, anche nel momento in cui le diamo legittimità mischiando un po’ le carte in tavola, abbiamo avventatezza, la mancanza di prevenzione, e l’ombra di un presagio inascoltato. (Perché non voglio assolutamente mettere in campo la “sfortuna” o il “caso”.) E dall’altra parte abbiamo la riscoperta di qualcosa di dimenticato e “perduto” che ha il potenziale di raddrizzare più di un torto.

Quell’avventatezza deve essere giustificata da una ragione profonda. (Che al momento non emerge.)
La stessa (o contraria a quella) che muoverà Conrad a sua volta. Ma che condurrà a esiti diversi.

È nel PERCHÉ conduca a esiti diversi che va ricercato il vero intento dell’autore. Che, però, al momento non è molto chiaro.

Diciamo che siamo incastrati in una versione simile di quel tramonto del prologo.
È stato messo lì, nella narrazione, ma non gli è stato dato il giusto valore da esprimere.
Quello stesso trattamento l’hanno ricevuto tantissimi altri elementi del racconto; che erano fondamentali e che sono stati invece tacitati per prediligere informazioni di WORLDBUILDING che erano di contorno.

L’INFODUMP è stata la luna rossa di questo racconto. E, nonostante la PIANIFICAZIONE profonda, emerge con chiarezza che è stata concentrata sugli elementi sbagliati. La malagestione ha massacrato il TEMA diventando il vero principale torto.
Un torto che l’autore ha perpetrato alla sua storia, in modo più o meno consapevole.

L’unica cosa che adesso c’è da sperare è che prenda gli spunti di questa Non-Recensione come se fossero la caverna di Conrad; che abbia il coraggio di entrarci dentro; di scoprire le verità nascoste dentro gli errori della sua narrazione, e che ne riemerga fuori con una nuova consapevolezza.

È l’unico modo che ha per raddrizzare più di uno dei suoi torti.

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