CORRELATIVO OGGETTIVO,  DALLA COFFA CON FURORE,  DETTAGLI E INFORMAZIONI,  DISTANZA EMOTIVA,  IMPARIAMO INSIEME ~ TECNICHE NARRATIVE,  MOSTRARE,  UN PROCIONE AL GIORNO

COSA SONO I CORRELATIVI OGGETTIVI?

La domanda che mi sento porre più spesso è: «Ma come si mettono le emozioni in un testo narrativo?».

Eh.
Mi piacerebbe dirvi che esiste una formula specifica, e che io ce l’ho. Ma non è così, e di sicuro non vi mentirò adesso. E per complicare ulteriormente le cose, è bene che sappiate che è una delle cose più difficili da fare. Perché bisogna arrivare al nocciolo del fruitore.

Però, possiamo fare molto al riguardo, mettendo in fila un po’ di considerazioni oggettive che possono diventare le frecce al nostro arco. Quanto saranno efficaci dipenderà da voi e dall’utilizzo che ne farete.
Ma ci conviene andare per gradi. Senza scoraggiarci.

Intanto, le emozioni di chi? Le emozioni PER chi?

Se siamo abbastanza sicuri che le emozioni a cui facciamo riferimento siano quelle per il fruitore finale, lo siamo un po’ meno sulla loro provenienza.

C’è chi pensa che le emozioni passino in un testo per osmosi, dalle mani sulla tastiera direttamente agli occhi che le ricevono sulle pagine: se l’autore ci metterà la SUA emozione, i SUOI sentimenti, allora il testo acquisirà quella componente emotiva che è imprescindibile.

Beh, questo è un mito da sfatare.

La passione di un autore non è necessariamente proporzionale a quella che troverete dentro a una storia. Perché la sua (eventuale) inesperienza potrebbe portarlo a non riuscire a convogliare tutto quello che si era prefissato.
Però è anche vero che su un terreno arido non crescono fiori, quindi la volontà di un autore di metterci “tutto sé stesso” deve esserci; a prescindere.

Se bisogna essere disposti a mettersi a nudo, ci vuole una quantità notevole di DEDIZIONE e ADDESTRAMENTO per poterci riuscire.
E questo non si può negare.

Però sappiamo anche che l’autore deve imparare a fare un passo indietro. Perché lui deve stare dietro la storia, non davanti. (Ve lo ricordate? Ne abbiamo parlato qui.)
Se dovesse parlarci direttamente di qualcosa scriverebbe un trattato, un manifesto politico, della propaganda antiprocionista, una chiamata alle armi, o una lista della spesa per un party da urlo; non si metterebbe all’anima di scrivere una storia.

E allora ci sembra che ci sia uno scalino concettuale vuoto; un controsenso.

Come faccio a far parlare le emozioni dell’autore, se non lo metto in condizione di farlo apertamente?

Perché la buona scrittura deve comunicare all’anima, giusto? O, se non volete essere così aulici, almeno alle viscere più intime. Sennò di cosa stiamo parlando?

Quindi le emozioni non si possono scindere. Vanno incluse. Fanno parte del pacchetto premium.

Perché la lettura deve stimolare i nostri sensi, ma non solo quello. Dovrebbe fare il passo successivo: darci modo di capire chi siamo. Scavare a fondo dentro di noi, cibare il nostro nucleo. E non accontentarsi di spazzolare solo la superficie della nostra pelle.
(Per questo si parla spesso di IMMERSIONE, in relazione a un testo.)

«E allora di chi sono le emozioni di cui stiamo parlando?»

Sono quelle dei personaggi. Che sono esattamente quelle in cui il lettore si specchia.
E non ho usato il verbo “specchiarsi” a caso.

La scrittura è un gioco a due: io ti passo qualcosa e tu lo prendi.
Telepatia, giusto? Senti la mia voce anche se io ti parlo da una grande distanza.
Non è magia. Ma può essere di una potenza inaudita.
Quindi dobbiamo prendere confidenza con il fatto che non dipende tutto SOLAMENTE dall’autore, ma anche da chi fruisce la storia. Soprattutto per quello che riguarda la vicinanza – o la distanza – emotiva che si svilupperà nel legame comunicativo che si instaurerà fra le due parti.

E quindi possiamo fare una riflessione che non viene fatta così spesso, e che prende in esame il funzionamento di un hardware estremamente sofisticato, potente e di ultima generazione, di cui possiamo usufruire “aggratisss”.

Salutate l’ospite d’onore: il CERVELLO.

Pare che ce sia uno in ogni lettore. (Giuro!)
E pare anche che abbia dei meccanismi che gli permettono di decodificare il mondo che lo circonda. Che quel mondo esista o meno, non fa differenza.

Quindi, non possiamo ignorare il modo in cui il nostro cervello processa le informazioni, archivia le emozioni, le immagazzina e poi le va a ripescare. Perché questo ci dà un enorme vantaggio nel momento in cui vogliamo richiamarle per “ottenere” determinati risultati.
Essere consci di un meccanismo ci dà la chiave per potervi accedere all’occorrenza.

Quindi, come si richiamano le emozioni? DOVE le mette il cervello?

Abbiamo già visto (qui) che dire che qualcuno è triste, non ci fa sentire tristi a nostra volta. Dunque dev’essere qualcosa di diverso…

Dobbiamo appoggiarci al MODO in cui il nostro cervello immagazzina le emozioni.
E dobbiamo capire come fare per svitare il tappo di quei “barattoli emozionali” quando ne abbiamo la necessità.

Per questo, quando ho trovato questo commento di Lucia Codato, Life Coach in PNL (master pratictioner in PNL) con certificate velleità in LNV e studio delle espressioni facciali, me lo sono salvato:

Pensa a una cosa precisa: quando un attore principiante vuol piangere tende a commettere l’errore di chiamare alla memoria fatti realmente accaduti nella sua vita che abbiano alla base un sentimento doloroso. E la stragrande maggioranza delle volte non ci riesce.
Perché?
Perché la mente non registra una situazione dal principio alla fine, ma incamera flash veri e propri.
Il cervello umano ha dei modi per processare le informazioni esterne e, conoscendo le modalità che ogni singolo individuo attua, piuttosto che la capacità collettiva di gestire un numero limitato di blocchi d’informazione ricevuti, si può stabilire cosa e come ricorderà quella persona.
Ebbene, il ricordo di un’emozione viene relegato all’interno del significato di un oggetto, non di un periodo di vita.
Esempio pratico: la fine di un amore. Percepisci un senso di destabilizzazione, di vuoto, di quel qualcosa che manca nella tua personale quotidianità ma a questo tu ti ci abitui.
E allora dov’è il point break? Nel particolare.
Reggi il periodo, reggi la mancanza, reggi il tempo che passa ma crolli davanti all’oggetto. E allora il suo spazzolino, il fermacapelli che ha dimenticato nel cassetto, il costume da bagno che avevate comperato insieme e ora è rimasto nella tasca della tua valigia o un brano musicale che aveva accompagnato un momento preciso, o il profumo, ti riportano violentemente a quel momento vissuto.
Ed è lì che, quando abbassi la guardia, il tuo inconscio riversa stronzamente tutta una gamma di sensazioni che aveva processato attraverso la cancellazione su un particolare.
Gli oggetti, come il sollecitare il VAKOG stesso, provocano degli ancoraggi di una potenza impressionante. Quanti di noi provano sensazioni forti sentendo, per esempio, l’odore per la cera dei pavimenti o per i mobili che usava nostra madre? O quel pezzo magari vecchiotto degli Eagle che ci riporta l’immagine dell’estate in cui lo sentimmo? Il dopobarba di nostro nonno. Il profumo del soffritto o dell’olio solare che usammo per anni. L’odore di uno shampoo, la copertina di un quaderno sepolto nel magazzino della cartoleria con Snoopy o Holly Hobbie. Il gusto dei fiori di zucca fritti di tua zia, l’odore della tappezzeria dell’auto di tuo padre. Tutti pezzi di vita che si sono ancorati al nostro cervello che, a sua volta, li ha diligentemente conservati comprimendoli in flash.
Vuoi piangere? Pensa a quell’oggetto o a quel profumo e solo così riavrai la sensazione esatta e piena.
Vuoi scrivere sedendoti sulla sedia di una donna sull’orlo di una crisi di nervi? Pensa a quando ti venne proibito quell’oggetto, alla frustrazione, il senso di impotenza, il dover subire. Ancorati all’oggetto e amplifica.

Tutto piuttosto chiaro, e che non necessita di grandi spiegazioni. Ma vediamo di mettere tutto in fila.

«Come si riporta questo nella scrittura?»

Evocando.

Evocando immagini e scene altamente percettive, e che siano ricche di CORRELATIVI OGGETTIVI: quegli oggetti, quelle parole, quelle situazioni, che in sé racchiudono un significato emotivo.

Il ricordo di un’emozione viene relegato all’interno del significato di un oggetto, non di un periodo di vita.

È scritto proprio a chiare lettere. Bisogna imprimerselo nella mente.
Provate a pensare cosa vi dicono gli oggetti che avete intorno, cosa dicono di voi e del vostro percorso. Che ricordi avete associati a essi.

E poi pensate alle frasi ricorrenti che usate, e che contraddistinguono chi siete o quelli che vi circondano.

Però rimane la magagna di prima: non basta dire che una cosa è triste, o che porta tristezza, per renderla tale.

Va mostrata. O, come piace a noi, va DIMOSTRATA.

Quegli oggetti vanno impregnati di un significato specifico. Altrimenti resteranno dei semplici oggetti e non dei barattoli emotivi.

Bisogna appellarci alla nostra tecnica del bicchiere, per dare peso alle parole.
Ve la ricordate? Ne abbiamo parlato per esteso qui, ma riprendiamola un attimo:

[…] Le parole non hanno un peso assoluto in generale. Ma acquisiscono peso anche, e soprattutto, in base al contesto in cui sono inserite.
Proprio come nella storiella del bicchiere d’acqua.
Avete presente quanto pesi un bicchiere d’acqua?
Al di là del suo peso assoluto, è fondamentale sapere per quanto tempo lo teniamo in mano.
Sollevarlo per un minuto non è un problema; già tenerlo per un’ora potrebbe indolenzire il braccio; e farlo per tutto il giorno potrebbe davvero essere doloroso, intorpidire il braccio e paralizzarlo.
Anche se il peso del bicchiere non è cambiato di una virgola.
Anche se il peso di ogni singola parola non è cambiato di una virgola.

Se voglio che le mie parole abbiamo un peso emotivo importante, devo costruire per loro un braccio sollevato e devo fare in modo che stia lì, per loro, a sostenerle nel tempo. In modo che diventino sempre più gravose a ogni pagina che viene sfogliata, finché non faranno tanta presa su di voi che riuscirete a sentire male per loro, o a commuovervi, o anche ad arrabbiarvi.

Ve lo ricordate il film Ghost, con Demi Moore, Patrick Swayze e Whoopi Goldberg?

All’interno di quel film c’è una parola che è potente quanto un “ti amo”, e forse anche di più. Ed è la parola “idem”.

È un CORRELATIVO OGGETTIVO in piena regola.
Senza contesto non ci dice nulla, anzi è una parola che è piuttosto insulsa.
Ma se vediamo i nostri personaggi, in un contesto molto intimo e onesto, dirsi:

«Lo sai che ti amo? Io ti amo davvero.»
«Idem.»

E anche:

«Non mi dici mai che mi ami, Sam.»
«Ma se te lo dico continuamente, Molly.»
«Io dico “ti amo”, tu dici “idem”. È diverso…»
«Ti amo si dice troppo spesso, ormai non sa più di niente.»

Capiamo che Sam dà a “idem” la stessa valenza di un “ti amo”; ma non solo questo: lo fa in modo che abbia un valore addirittura maggiore. Perché è un gradino superiore rispetto alla media degli altri “ti amo”, svuotati del loro significato perché abusati.
In quell’”idem” c’è INEQUIVOCABILMENTE lui.
E questo è un fatto cruciale perché, quando lui dovrà fare in modo che Molly creda che la medium (Oda Mae) parli per lui, il “ti amo” non sarà sufficiente.

Prendete questa scena:

Visto?

Smontiamola in pezzi.

Siamo in un bar: un ambiente neutrale.
Non è un particolare scelto a caso; deve essere un luogo scevro da possibili condizionamenti emotivi dovuti a suggestioni e trucchetti. È un luogo che permette a Molly di essere scettica, ma padrona del proprio stato emotivo.
Oda Mae cerca un modo per accaparrarsi la sua fiducia, e lo fa tirando in ballo dei particolari che richiamino chi sia Sam davvero. In modo che Molly l’ascolti, ma anche in modo che non si spaventi.
Quindi il tono è amichevole e sceglie un particolare peculiare, che metta a suo agio Molly e che la persuada a credere che parli per lui, perché Sam ha insistito. Questo dovrebbe creare una connessione fra i due personaggi, ma non annullare totalmente il conflitto derivato dallo scetticismo: è un particolare troppo debole per farlo, ma possiamo dire che, in qualche modo, apre una strada.

«Ora ti spiego cosa mi ha fatto (per convincermi ad ascoltarlo): mi ha tenuta una notte sveglia cantando “sono Enrico Ottavo chi è più Re di me”.»
«È così che mi ha convinta a uscire con lui…»
«Mmh.»

Primo step raggiunto: ha la sua attenzione. Oda Mae alza gli occhi al cielo in segno di rimprovero verso Sam, come a dire che è incorreggibile. Questo la rende piacevole e simpatica agli occhi del fruitore, ma potrebbe sembrare anche una pantomima per convincere Molly, che infatti mette dei paletti e palesa il suo scetticismo. Ci serve perché il conflitto deve essere sufficiente a far andare avanti l’opera di convincimento voluta da Sam.

«Senta, mi dispiace… ma io non credo che ci sia un’altra vita dopo la morte.»

Tac. Muro.

Sam corre ai ripari: «Dille che si sbaglia.»
«Dice che ti sbagli.»
Molly sbatte le palpebre, ma non le crede. «Le ha parlato in questo istante?»
«Sì, mi ha appena pregato di dirti che sei in errore.»

Molly ancora non le crede. Ovviamente. Non basta dire a qualcuno qualcosa di assurdo perché ci creda immediatamente. Indaga, per capire quanto la medium la stia prendendo in giro.

«E dov’è adesso?»
«Non posso vederlo, posso solo sentirlo.»

Ed è vero. E sappiamo che è così, ed è pure un particolare messo in modo intelligente. Perché permette a Molly di essere ancora più scettica, da una parte, ma permette anche di dare un valore in più nel momento in cui Sam potrà essere visibile (alla fine del film). In più, permette a Oda Mae di non potersi sbarazzare di lui e di saldare il conflitto fra i due. (Oda Mae è stata sveglia tutta la notte con la sua voce nelle orecchie, per esempio.)

Sam rincara.

«Le siedo accanto.»

E Oda Mae sa che è “troppo”, sulla via della fiducia. Perché è veramente troppo difficile da credere e rischia di passare da quella che davvero cerca di raggirare Molly. Il conflitto sale. E infatti risponde:

«Questo non aiuta, Sam.»
«Le sto tenendo la mano.»
«Dice che ti tiene la mano.»

Questa frase la riporta perché sa che Sam la ama, sa che vorrebbe rincuorarla. E spera che davvero Molly possa crederle. Diciamo che decide di affidarsi alla “via della tenerezza”. Come se potesse fare una breccia.
Molly si morde un labbro. Potrebbe cedere, perché Oda Mae sta facendo leva sulla possibilità di un tocco che non riesce a sentire. Con una promessa di vicinanza che però non può verificare, quindi è un’arma a doppio taglio, in cui si annida il rigetto.
Infatti il conflitto aumenta; e Molly fa un passo indietro emotivo.

«Dove vuoi arrivare? Cosa speri di ottenere da me?»

Crea spazio di manovra per rimanere lucida e chiarire quale sia l’obiettivo della medium.

«No, senti. Se pensi che faccia questo per interesse, sei proprio fuori pista!»
«Sam è morto! È chiaro? È morto!»

Molly ha bisogno di proteggersi dal dolore, deve sapere che quella porta è chiusa per sempre, per non rischiare di incastrarsi in un loop di disperazione da cui potrebbe non uscire mai. La realtà è realtà. I morti rimangono morti. Le regole della Natura non si possono sovvertire.
Si alza e se ne va.
Sam si vede sfumare davanti la possibilità di convincerla. Ha bisogno che l’ascolti. Molly DEVE credere a Oda Mae; è troppo importante che lo faccia.

«Dille che la amo!»
«HA DETTO CHE TI AMA!»

Questo è un passaggio cruciale, perché per Molly significa “beccata, bugiarda”.
E anche il fruitore pensa “pessima scelta di parole”, perché sa che questo è un ulteriore passo che porta Molly più lontana. Ma è necessario, perché questo ultimo gradino di conflitto crea lo spazio all’ultimo scambio di battute.

Infatti Molly si gira, con gli occhi lucidi e un sorriso amaro in faccia che dice: “Avevo ragione, non mi freghi”.

«Sam non lo avrebbe mai detto.» Si rigira per andarsene.
«Idem. Dille “idem”.»
«Che significa “idem”?!» gli bisbiglia. «IDEM!»

Molly si blocca. Si gira.
ORA le crede.

La scena è costruita in modo da tenere il bicchiere in alto: faccio convergere tutti i tasselli perché io possa sentire che quell’”idem” sia pesante come un macigno e ci rovesci addosso tutto il contenuto del bicchiere.
Perché adesso significa che DAVVERO Sam è in contatto con Oda Mae, quindi oltre a identificarlo in modo tassativo, ha valore di onestà, e buona fede, da parte della medium.
È un lasciapassare per la fiducia di Molly, in questa scena.

Ma tutti questi significati non ci sono stati passati in modo coatto. Non ci hanno SPIEGATO la rava e la fava, ci hanno DIMOSTRATO che è così.

Nella prima parte della storia l’”idem” è stato inserito in modo naturale, in tempi non sospetti, come se fosse una normale interazione carina fra i due personaggi.
Un particolare che ci fa piacere Sam, perché ci dice che non è uno qualunque; e che dà valore all’amore che ha per Molly.
Un particolare significativo. Di quelli che ci fanno capire che cosa rappresentino l’uno per l’altra. E cosa rappresenti il loro sentimento ai fini della storia.
È “solo” una piccola sfumatura, ma che ha una portata ENORME, perché è essenziale ai fini della storia.

Solo che in un primo momento lo associamo alla qualifica del loro amore, e successivamente il fruitore lo evidenzia come la chiave per sbloccare quella scena e ancora dopo per suggellare il loro vero amore, per sempre. Al di là della realtà, al di là della morte.

È ragionando e contestualizzando in questo modo che una parola semplice come “idem” può essere impregnata di un significato emotivo profondo e denso. Anzi, di più di uno. Come abbiamo visto.

E le possibilità sono infinite.
Dalla vergogna, alla vendetta.
Dalla rabbia alla resilienza.
Dalla solitudine alla spensieratezza.
E il nostro CORRELATIVO OGGETTIVO può essere di tutto, da una trottola a un edificio. Da una canzone a un profumo. Da un ballo a uno specifico sapore.

Per questo c’è bisogno di fare un ulteriore passo in avanti che, dopo questa analisi, ci porta a chiederci:

«E come lo dimostro? Come lo metto in scena senza spiegarlo?»

Possiamo dire che entrambe le domande hanno una soluzione che ha la radice in comune: sfruttare un altro paio di meccanismi cerebrali noti.

Il nostro cervello impara per imitazione e vive di percezioni.

E questo è chiaro.

Diciamo che utilizza dei canali percettivi mirati, che gli permettono di interagire con la realtà che gli sta intorno. Filtrandola.
Attraverso i sensi, riceve gli stimoli necessari a comprendere dove si trovi e come il nostro corpo stia interagendo con l’esterno. Perché di fatto non “esiste” una realtà oggettiva, ma tantissime elaborazioni soggettive della realtà. Tante quante sono gli individui che la fruiscono.

Questi canali percettivi sono quelli che vengono chiamati “Sistema VAKOG” e che si poggiano sui sensi.

Le lettere di VAKOG stanno per:

  • VISIVO;
  • AUDITIVO;
  • CINESTESICO (Kinesthetic);
  • OLFATTIVO;
  • GUSTATIVO.

Il sesto senso è quello del film in cui il bambino vede “la gente morta” (o di vostra moglie che lo sa quello che avete combinato… quindi portarle dei fiori sarà controproducente), il settimo quello dei Cavalieri dello Zodiaco… Ma non divaghiamo e ognuno si tenga il proprio cosmo per sé.

Sciocchezze a parte, il punto è che possiamo essere certi che (a parte specifiche patologie e/o impedimenti fisici) TUTTI quanti usano quegli stessi canali per elaborare la realtà.

L’unica cosa che può differire sostanzialmente da un individuo a un altro è la preferenzialità con cui li usa. Ognuno sviluppa ciò che gli è più congeniale per ottenere una versione della realtà che lo soddisfi adeguatamente. (Non a caso, chi non può contare su determinati canali percettivi, sviluppa e si appoggia molto di più agli altri.)

Possiamo dire che i primi tre sono quelli tendenzialmente preponderanti.
E possiamo anche dire che ogni persona avrà la propria combinazione di canali che prediligerà; e che utilizzerà più frequentemente.
Qualcuno sarà più sensibile alle immagini, qualcun altro alle parole dette, altri ancora alle sensazioni tattili con cui interagisce con gli oggetti e gli altri esseri viventi, e via dicendo.

Siamo animali sociali, e questo è un bagaglio che ci portiamo dentro di default.

Per questo è FONDAMENTALE che la pagina scritta sia VIVA. Sia traboccante di percezioni, e che siano anche variegate fra di loro. Che “solleciti il VAKOG”.

In prima battuta ci serve per dare la possibilità al cervello di costruire un contesto che lui ritenga credibile, e che possa cavare fuori dalla nebbia grigia in cui naviga un lettore, entrando fra le pagine.
Più sensazioni concrete lui riuscirà a collezionare e più avrà la capacità specifica di ricrearle nella nostra testa; il più vicino possibile al modo in cui le aveva immaginate l’autore che le ha scritte e ce le ha passate.
In seconda battuta, stimolare tutta la gamma di sensazioni ci dà la possibilità di arrivare a tutte le tipologie di persone. Quelle visive, quelle auditive, quelle cinestesiche e le altre.

Affidare la nostra narrazione a un SOLO canale percettivo è un rischio, e anche una leggerezza insensata: ci perderemmo per la strada quelli che utilizzano primariamente altri canali sensoriali.

Non usarne nemmeno mezzo è proprio da sconsiderati. Ed è il modo migliore di perdere TUTTI per la strada.
La capacità di astrazione è limitata: se il cervello non ha nulla di concreto a cui appigliarsi, andrà alla deriva senza più uno scoglio a cui approdare. Bye bye, attenzione; e bye bye interesse.

Ovviamente, la percezione della realtà non si fonda solo sui cinque sensi; può essere condizionata da altri fattori che si poggiano come un filtro sui nostri canali:

  • il CONTESTO;
  • le CONVINZIONI;
  • le ASPETTATIVE e gli OBIETTIVI.

E hanno una funzione peculiare anche lo STATO EMOTIVO in cui ci troviamo, l’ATTENZIONE che possiamo dedicare alla percezione esterna.
Tenendo conto del fatto che il nostro cervello riceve costantemente circa 2000 informazioni sensoriali al secondo – e che noi riusciamo a rilevarne solamente un numero che va da 5 a 9 – ci rendiamo conto di quanto la nostra percezione della realtà sia parziale e limitata, e di quanto poco ne siamo realmente consapevoli.

Oltre a questo, il cervello ottiene informazioni utili mettendole in relazione con ciò che ha già imparato e percepito.
E questo gli permette di scartare ciò che ritiene “inutile” e dannoso; per evitare che subisca un sovraccarico informativo da iper-percezione, e per creare un modello di mondo che ritenga coerente per orientarcisi dentro e garantire una risposta celere d’interazione con esso. Se non deve valutare continuamente se certe informazioni siano plausibili o meno, ha più tempo ed energia per concentrarsi sulle stimolazioni che ritiene ragionevolmente esistenti nella percezione individuale che si è creato.

Questi filtri cognitivi sono “utili” alla strutturazione personale dell’individuo solo se è coscio che esistano. Ma esistono anche in coloro che ne sono perfettamente inconsapevoli.

E questo ci porta anche allo step successivo.
Come esseri umani, imitiamo i comportamenti che riteniamo “vincenti” e li mettiamo in relazione con quelli che ci sono stati insegnati. Aggiungiamo pensieri nuovi e articolati, via via che li apprendiamo e li sostituiamo con quelli che riteniamo non ci servano più.
Le informazioni che immagazziniamo, quindi, non sono fisse: di volta in volta il cervello fa una cernita di quelle da tenere, e quelle inutili che man mano spariranno per fare posto ad altro.
Se il nostro cervello impara anche per imitazione, significa che è in grado di decodificare e rielaborare tutto ciò che gli arriva dall’esterno e di riproporlo quando ne ha necessità.
Di riprodurre una realtà fittizia che sia esattamente credibile come quella vera.
E riesce a farlo talmente bene che ha bisogno di meccanismi che lo inducano a “ricordarsi” che alcune cose che vede, sente o percepisce, non sono necessariamente cose che stanno succedendo direttamente a lui.

Potrebbe sentirsi riposato a sua volta, quando vede qualcuno dormire. Potrebbe sentirsi sazio, se vede qualcuno mangiare. Perciò ha bisogno di una conferma che gli dica: “Ehi, bello, non sei tu quello che è riposato. Tu devi ancora dormire. Anzi, forse sarà il caso di farlo.”

Stentate a crederlo?

Per dire, l’essere umano è capace di provare piacere ed eccitazione, quando sono altri ad avere rapporti sessuali…

Ops. Beccati.

Il punto è che esiste una sincronia fra azione e osservazione.

Nel cervello umano di un osservatore, si accendono gli stessi neuroni attivati dall’esecutore di un’azione.
E questi neuroni si chiamano: NEURONI SPECCHIO.

Servono quando vogliamo che il nostro fruitore provi ciò che sta provando il nostro personaggio.
Ed è proprio questo il nostro caso: vogliamo che percepisca ciò che prova lui, perché abbiamo bisogno che dia lo stesso significato agli oggetti e alle relazioni che vive all’interno di una storia.
Il cervello è diligente: prende tutte le informazioni che ha catalogato dalle proprie esperienze e poi le rimette insieme ripescandole dalla sua libreria mentale. Per mettere in gioco le emozioni che ha già esperito o per sperimentarne nuove combinazioni.

Quindi, rimettiamo un po’ in fila tutto quello che abbiamo detto:

  • Per rendere un testo narrativo potenzialmente emotivo, dobbiamo ricorrere ad alcune soluzioni che prevedano l’utilizzo dei meccanismi utilizzati dal cervello per percepire la realtà.
  • Sapendo che il cervello comprime le emozioni in “barattoli emotivi” che identifica negli oggetti, abbiamo bisogno di srotolare il percorso inverso.
    Cioè creare, mostrando, delle scene e delle interazioni che siano sensorialmente vivide. In modo che il cervello si immedesimi e riesca a identificare, per quelli che sono i suoi canali preferenziali, quali siano gli oggetti che hanno valore emotivo, all’interno di un contesto che ritenga sufficientemente “reale” e “coerente” rispetto a ciò che già conosce.
  • Se questo viene fatto in maniera convincente, il cervello sarà in grado, non solo di riprodurre fedelmente ciò che è stato scritto, ma sarà messo in condizione di sentire come sue le emozioni dei personaggi che sono legate ai CORRELATIVI OGGETTIVI creati, perché è capace di specchiarsi perfettamente in ciò che fruisce come osservatore.

Vi sembra plausibile? Be’, lo è.

Perché, se ci pensate, saprete dirmi cosa significa la trottola in Inception.
Il naso che si allunga di Pinocchio. O le orecchie di Dumbo; e la sua piuma.
O lo schivare le pallottole in Matrix (o fermarle).
Cosa rappresenta lo spray anti-volpi in Zootropolis, o la chitarra di Miguel in Coco.
Perché abbiamo tanto a cuore la frase “Sono io tuo padre”.

O perché ci emozioniamo davanti a un carrarmato che decreta la fine della permanenza nel campo di concentramento in La vita è bella.

Chi scrive dovrebbe sapere la portata di ciò che può ottenere con le sue parole.
E che questo deriva anche dall’essere consci che esistano determinate sollecitazioni cerebrali. Perché questo fa la differenza sulla varietà della gamma di effetti che può stimolare.

E voi?
Vi ricordate di alcuni CORRELATIVI OGGETTIVI che vi sono rimasti particolarmente impressi?
Li avete usati nelle vostre storie? Anche inconsciamente?

Fatemelo sapere; lo sapete che i procioni sono curiosi per natura.

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