DESCRIZIONI,  EMPATIA,  IMPARIAMO INSIEME ~ TECNICHE NARRATIVE,  MISTERO, CONFUSIONE E MISTIFICAZIONE,  MOSTRARE,  NARRATORE E NARRAZIONE,  PERSONAGGI,  PUNTO DI VISTA,  UN PROCIONE AL GIORNO

DA COSA NASCE L’ESIGENZA DI MOSTRARE?

Perché si parla tanto del DOVER mostrare?
Ci avete mai pensato?

Senza liquidare il tutto con “sono pippe mentali da rompicoglioni indottrinati che non saprebbero riconoscere l’arte nemmeno se gli calpestasse il cervello”, intendo.

Che benefici può apportare a una storia scritta?

(Sì, oggi ci limitiamo a circoscrivere alla scrittura, perché per altri mezzi è implicito mostrare. O almeno dovrebbe esserlo…)

Nel senso, se posso scrivere apertamente “qualcosa” con poche parole semplici e chiare, perché dovrei prendermi la briga di mostrarla, con un aumento esponenziale di sbattimento e fatica?

Eh.

Perché MOSTRARE non è un DOVERE ma una STRATEGIA.

Una tra le più efficaci per conseguire almeno tre obiettivi, tutti strettamente interconnessi fra loro:

  • quello VISIVO;
  • quello EMOTIVO;
  • quello INTELLIGIBILE.

«Ma non starai un po’ esagerando?»

Scopriamolo. Perché io vi mostrerò solo la via e poi starà a voi scegliere se imboccarla, facendo le dovute considerazioni personali.

Abbiamo detto che mostrare è una strategia. Una TECNICA.
E le tecniche non sono nient’altro che il modo per risolvere un problema che si manifesta all’interno di un dato contesto.

Voglio rendere tridimensionale il mio disegno?

Il chiaroscuro è una tecnica che mi permette di dare corpo a un’immagine bidimensionale in modo che appaia tridimensionale: comprendendo il modo in cui la luce colpisce gli oggetti, posso sfruttarlo e ricreare questo gioco di luci e ombre a mio vantaggio.
Più sono bravo ad applicare questa tecnica – più “manualità” ho al riguardo – più il mio disegno sarà convincente in quell’intento.

Ci siamo? Mi sembra chiaro, no?
Bene.

Molti presentano il MOSTRARE come una REGOLA, e si sa che le regole non piacciono a nessuno perché sembrano delle imposizioni forzate e basta.
Però, se volete rinfrescarvi la memoria sul perché sia importante appoggiarsi e conoscere i principi, da cui nascono le regole dell’arte, potete sbirciare qui. (Nessun procione è stato maltrattato durante la scrittura dell’articolo, parola di Darth Coon).

Comunque, di solito, la troviamo identificata con la frase “Show, don’t tell!” che si traduce in soldoni con: “Mostra, non raccontare!”.
Che è piuttosto efficace per gli americani, che sono molto diretti e informali in tutto, ma che a noi fa salire l’orticaria, perché – sarà il punto esclamativo, sarà che discendiamo dal Sommo Poeta, sarà quel che sarà della mia vita chi lo sa – ma a noi non piace.
Non ci garba per nulla; o’ via!

Intanto perché dà la possibilità di belare:

«Ma io sono uno scrittore! Mica un fotografo o un regista! Come faccio a raccontare qualcosa se non posso raccontarla?! In fondo, non si chiama “storytelling”?»

Già, si chiama proprio così.

Ed è proprio da questo che nascono le prime ambiguità al riguardo.
Nessuno sano di mente toglierebbe il gusto di raccontare, a qualcuno che vuole dare vita a una storia. Nemmeno io. Quindi mettete via i forconi, perché qui le storie le proteggiamo, non le facciamo estinguere.
Al massimo, proviamo a potenziarle.

Quindi cancelliamo “Show, don’t tell!”… ecco fatto. E spacchettiamo tutto.

Dicevamo:

OBIETTIVO VISIVO

Per capire il MOSTRARE bisognerebbe capire che il primo step è “RACCONTARE PER IMMAGINI”.

«Ehi, buoni coi forconi laggiù in fondo. Ho detto che c’è tempo per incazzarsi più tardi.»

Perché bisognerebbe preferire le immagini?
E perché ci si nasconde un grande trappolone esecutivo?

Bisognerebbe scegliere di evocare immagini perché NESSUNO è nella testa dello scrittore, tranne lui. E un libro è un varco per la sua testa.
Più questo varco è concreto e tangibile, più è facile introdurcisi e orientarsi. E, di conseguenza, scegliere di rimanerci.
Il lettore entra fra le pagine come se vagasse dentro una nebbia grigia corposa, e l’unico che può diradarla è proprio l’autore, attraverso le parole che usa.
Per questo, negli articoli precedenti parlavamo di linguaggio chiaro, di termini adeguati e di descrizioni che richiamino particolari oggettivi e concreti in maniera efficace.

Il nostro cervello è fatto per accedere a una libreria mentale di immagini e percezioni, ed è capace di montarle insieme, a comando.
Sì, il nostro cervello è azionista della Lego. E mette da parte i soldi per comprarsi il set dei Ghostbusters…

Evocare parole come: ciliegia, astronauta, zanzara, carro-attrezzi e via dicendo, ci mette in condizione immediata di visualizzare l’oggetto. Che poi è il principio fondante su cui poggia la scrittura: scrivo una parola e tu le dai corpo e la rendi tridimensionale nella tua testa.
Non possiamo negarlo.

Se non credete in questo, è inutile che scriviate.

E vale per tutto, dagli oggetti, alle persone, alle idee e i concetti. Che esistano o meno non ha importanza. Se puoi pensarlo, esiste. Per te.
Anche perché il cervello non può farne a meno; è “costretto” a farlo dal proprio funzionamento.
Infatti, il nostro cervello non è capace di recepire il comando “NON”.

NON immaginate un elefante che indossa tacchi a spillo rossi.
Troppo tardi. L’avete già fatto. (Non mentite…)
È costretto a evocarlo e poi a cancellarlo, perché ha bisogno di capire su cosa apporre il divieto.

Portentoso, vero?
Già.

Vi dirò di più: ogni elefante evocato da ognuno di voi è stato differente per ciascuno.
Proprio così. Perché ognuno di voi ha la propria libreria mentale a cui attingere, costruita nel tempo e fatta di tutte le esperienza che avete collezionato durante il corso della vita.
Per questo, scrivendo, bisogna essere specifici e scegliere le parole più aderenti possibili a ciò che vogliamo far emergere: per fare in modo che ciò che l’autore ha in testa filtri nel lettore nella maniera più simile possibile a ciò che aveva pensato.
Ed è quel famoso rapporto di collaborazione 70/30 di cui abbiamo già parlato con le descrizioni, e che continuerà a ritornare ancora e ancora.

Perché il lettore non subisce MAI la storia.

Se lo fa, vuol dire che l’autore si è posto in una posizione sopraelevata rispetto a lui, e che gli sta impartendo una lezione. E questo non va bene perché il lettore non è stupido, non ha bisogno di essere redarguito o bacchettato, e ogni pagina che sfoglia è l’accettazione di una collaborazione reciproca.
Perché nessuna voce ha senso senza qualcuno disposto ad ascoltarla. E quindi è inutile imporla perché sì.

Dunque, la descrizione comincia nella testa dell’autore – che ci mette il 70% – e finisce nella testa del lettore – che ci mette il restante 30%. Il grosso del lavoro lo fa lo scrittore, ma senza levare il piacere al lettore di metterci qualcosa di suo.
Dando la possibilità a ciascuna persona di rendere la storia speciale a modo proprio.

Vi ricordate l’esempio del dinosauro di Jurassic Park?

L’autore fornisce la maggior parte del DNA fossile del dinosauro e il lettore aggiunge il proprio per completarlo. E appaga il desiderio splatter di vedere la gente sgranocchiata dal T. rex.
Semplice.

«Eh, ma io voglio essere vago apposta. Così do libertà completa al mio lettore.»

L’intento è nobile. Ma purtroppo inefficace, perché mancate alla vostra parte di accordo.
È come rendere qualcuno cieco e poi mandarlo al cinema a guardarsi un film, dicendogli che così è libero di immaginarsi tutto da solo – invece di subirsi le scelte fatte dalla troupe – e libero dal doverlo elaborare con gli occhi.

Il punto non è tanto vedere o meno.
Ma è COME vediamo il mondo attraverso gli occhi dell’autore a fare la differenza per ciascuno.
Ed è giusto che questa voce rimanga riconoscibile e intatta al massimo.

Quindi, ponendosi l’impegno di scrivere in maniera più visiva possibile, e di inserire tutti i dettagli necessari più concreti e oggettivi possibili, dov’è l’inghippo?

La vera trappola di questo OBIETTIVO VISIVO è che tutti (o comunque, molti) si fermano solo a questo. E riducono il MOSTRARE a un report di ciò che avviene, scarnito dei fronzoli, appiattito di ogni spessore ed emozione.

Apro gli occhi. Sbadiglio e mi stiracchio. Mi gratto il culo. Faccio dieci passi e vado in bagno, mi lavo il viso con l’acqua fredda e mi guardo allo specchio. Lo specchio mi restituisce l’immagine della mia faccia dentro il pigiama a righe spiegazzato.

Embé? Chissenefrega.

Decontestualizzato, questo non è MOSTRARE, è la telecronaca insignificante di un momento qualunque.

«Ma tu hai detto che devo specificare quello che fa il personaggio.»

Sì. Però capiamoci.
L’intento è buono, anche in questo caso: tagliare il superfluo, dare un’impronta visiva e blablabla… ma è stato toppato alla grande perché manca la colonna portante: il motivo.
Messa giù così e basta, è solo una masturbazione mentale svilente.
Quello che vogliamo è dare un contesto concreto e tridimensionale, che abbia una propria suggestione, adatta a contenere il personaggio. Ma mica solo questo.

Sarebbe come dire: «Tiè, volevi gli occhi. Pigliateli. Ma avrai solo questi.»

L’elenco di tutti i movimenti, e i gesti compiuti, NON è prettamente MOSTRARE.

(Se proprio vogliamo essere magnanimi, è solo una parte minima del pacchetto completo).

Esattamente come fare un elenco di tutti gli oggetti presenti in una stanza non è una descrizione che possa chiamarsi tale.
Se ci si ferma a questo step e basta, avremo resoconti robotici di storie impersonali.
Che poi è uno degli appigli che vengono tirati in ballo dai detrattori del MOSTRARE.
E credo che sarebbe inutile anche controbattere al riguardo. Perché, al netto di tutto, se l’intento fosse davvero SOLO quello, avrebbero pure ragione.

Ma per fortuna non è così, e c’è dell’altro: cioè la parte più succosa del meccanismo.

Apro gli occhi e come tutte le mattine, ovviamente, mi alzo e vado in bagno.

È meglio?
No. Eppure è molto più corto e assolve le stesse cose.

Ma perché non va bene?

Perché è inutile tanto quanto il primo esempio. E per di più è anche più vago e fa emergere il narratore invadente, che ci tiene a riassumere e impartirci giudizi sulle azioni compiute.

Quello che mostrate deve SEMPRE tendere a un OBIETTIVO specifico.

E l’obiettivo non è ottenere un susseguirsi meccanico di gesti. Piuttosto, sono i gesti che ci aiutano a far trasparire ciò che si nasconde dietro di loro. I gesti sono le ombre cinesi che ci aiutano a comprendere cosa si muova dietro il telo bianco.

Ciò che dobbiamo pensare a monte è: «Cosa voglio far trapelare? Perché ho bisogno di far VEDERE il personaggio che si alza? A cosa mi serve? Devo far vedere che è abitudinario? Che fa fatica ad alzarsi? Che è stressato? Cosa?»

Il vero senso del MOSTRARE si comincia ad acquisire quando si capisce che serve soprattutto a far affiorare ciò che è invisibile: a DIMOSTRARE.

Marco è bello? Marco è felice? Marco ha una cotta per la sua migliore amica, che però pensa solo a studiare?

Dimostramelo.

Queste cose non si possono evocare in maniera “spicciola” dalla nostra libreria mentale, perché non hanno un semplice oggetto di riferimento a impersonarle, ma questo non vuol dire che non si possa fare. Anzi.
Si possono richiamare mettendo in campo i NEURONI SPECCHIO presenti nel nostro cervello.

E cosa sono?
I neuroni specchio non sono quelli a cui piace rimirarsi per replicare i tutorial di make-up, ma sono quei neuroni che ci permettono di imparare attraverso ciò che vediamo. Ci permettono di emulare, e ricreano nella testa ciò che percepiamo con gli occhi. La cosa interessante è che, nel caso di un libro, ricreano anche partendo da parole scritte, se sono mirate a farci “vedere” qualcosa. Quindi, assolvono sia la prima parte, che la seconda.

Infatti, in una sezione apposita della nostra libreria mentale, abbiamo imparato a catalogare le nostre interazioni sociali, le nostre esperienze, i nostri giudizi sugli altri, e abbiamo imparato a riconoscere il comportamento di coloro che ci circondano per comprendere che ruolo possono avere nei nostri confronti.
Se possono essere dannosi o meno, per noi e per gli altri.
Se possono essere degni di fiducia, o se ci pugnaleranno alle spalle.
Se mentono. Se sono felici. Se sono tristi. Se sono soli. Se sono anziani. Se sono dei procioni (che poi lo sanno tutti che ognuno di noi è un po’ procione. Quindi questo è implicito).

E come ci riusciamo?
Per caso le persone vanno in giro con dei cartelli attaccati in fronte con scritto quello che dovremmo sapere di loro?
No.

Semplicemente, si manifestano a noi. E noi traiamo le nostre conclusioni: uniamo i puntini del loro enigma e vediamo che disegno viene fuori.
A volte avendo ragione, altre sbagliandoci di grosso. Ma è comunque l’interazione fra le parti a creare la connessione necessaria al manifestarsi di questo evento.

Ecco a cosa servono i gesti: a evidenziare l’implicito per renderlo esplicito.

“Dimostra, non riassumere”.

Sì, ma perché?
Non posso semplicemente dire che Marco è felice?

No, se vogliamo che si manifesti il secondo obiettivo.

OBIETTIVO EMOTIVO

Eh, chi lo avrebbe detto che MOSTRARE servisse a emozionare?
Eppure è così. Anche se ho sentito moltissime persone non crederci.

Vediamo come posso spiegarvelo bene.

«E poi me lo sono trovata davanti: bellissimo. Mi sono messa a piangere dall’emozione. Ero commossa.»

Avete pianto, leggendo questa frase? Vi siete commossi? Eravate emozionati? Anche per voi era bellissimo?

Ovviamente no. Perché di per sé scrivere che qualcosa “è bellissimo” non ha lo stesso valore che percepirlo in prima persona come tale.

Riassumere ed esporre giudizi appiattisce la connessione emotiva perché ne smorza gli effetti. Per dare senso a quelle parole dovete fidarvi del narratore e in più dovete pescare fra le cose che nella vostra libreria mentale sono etichettate come “bellissime” ed “emozionanti”, e sperare che la vostra esperienza sia sufficientemente aderente a quella che avete trovato scritta.

Purtroppo, non è quasi mai così. Perché le indicazioni troppo vaghe non ci permettono di definire un range di possibilità circoscritto a sufficienza in cui poter pescare adeguatamente. Quando il cervello si trova davanti qualcosa che non può decodificare adeguatamente, si spegne e smette di interessarsi.

Dai, forza. Non mentite. Non esiste niente di più palloso di qualcuno che vi racconta qualcosa di cui non vi importa nulla.
È così per tutti.
Che ne so, di un matrimonio, per esempio.
Sicuramente gli sposi l’hanno vissuto con la pelle d’oca tutto il giorno, in un turbinio di emozioni che si rincorrevano… Ma voi che non eravate presenti?

Avete voglia che vi sfrangino le pelotas con il riassunto di quello che è successo?
Immagino di no.

Però…

Se le cose fossero andate così?

Il padre la guarda negli occhi e le sorride. «Sei così bella… Proprio come lei il giorno che ci siamo sposati.» Giocherella con una catenina di metallo. «Avrebbe voluto dartela lei. Ne sono sicuro.»
Le aggancia il ciondolo, che le ricade fra le clavicole, e le bacia la fronte. «Io… cioè noi… Insomma, quello che voglio dire è che ci guarda. Sono sicuro che ci guardi, stai tranquilla…»
Gli trema la voce, e a lei sale un groppo in gola.
«Ti voglio bene, papà.» Lo strizza più che può, per trovare nella sua figura esile la forza che sente le possa mancare. Nelle narici l’odore del dopobarba che non ha mai cambiato: profumo di casa, e di affetto.
All’ingresso della chiesa, la navata sembra allungarsi a dismisura. Il cuore potrebbe esploderle nel petto. Incrocia lo sguardo con Chiara, che dai primi banchi le fa cenno di respirare a fondo.
Si accorge che sta trattenendo il fiato. «Ti renderò fiera di me, mamma…»
Si appoggia al gomito di suo padre e fa il primo passo in avanti.
Marco le sorride, ha gli occhi luminosi e si torce le mani ad ogni passo che le vede fare verso di lui.
«È quello giusto. Sì, è così.»

Ovviamente, non mi aspetto che piangiate come ragazzine a un concerto dei Backstreet Boys, con questo esempio. È abbozzato e decontestualizzato.
Se fosse all’interno del libro, avremmo tutto il percorso emotivo che ci ha portato fino a quel momento, e che ci permetterebbe di maturare l’EMPATIA adeguata per il personaggio; necessaria a poterci emozionare per lei. E con lei.

Perché, tendenzialmente, le parole non hanno un peso assoluto in generale. Ma acquisiscono peso anche, e soprattutto, in base al contesto in cui sono inserite.
Proprio come nella storiella del bicchiere d’acqua.

Avete presente quanto pesi un bicchiere d’acqua?

Al di là del suo peso assoluto, è fondamentale sapere per quanto tempo lo teniamo in mano.
Sollevarlo per un un minuto non è un problema; già tenerlo per un’ora potrebbe indolenzire il braccio; e farlo per tutto il giorno potrebbe davvero essere doloroso, intorpidire il braccio e paralizzarlo.
Anche se il peso del bicchiere non è cambiato di una virgola.
Anche se il peso di ogni singola parola non è cambiato di una virgola.

Se voglio che le mie parole abbiamo un peso emotivo importante, devo costruire per loro un braccio sollevato e devo fare in modo che stia lì, per loro, a sostenerle nel tempo. In modo che diventino sempre più gravose ad ogni pagina che viene sfogliata, finché non faranno tanta presa su di voi che riuscirete a sentire male per loro, o a commuovervi, o anche ad arrabbiarvi.

L’esempio fatto mi serve a costruire quel braccio e a dirgli di stare su. Perché adesso potete immaginare il perché la sposa potrebbe essersi commossa. Potete capire cosa ci sia dietro. E potete intuire cosa le si sta smuovendo dentro.

Adesso lo capite perché DIRE di essere emozionati, e mettere in scena qualcuno che DIMOSTRA di essere emozionato, hanno due valenze completamente diverse su chi legge?

Il vero potere del MOSTRARE è che nessuno vi ha detto che la madre è morta, ma voi lo avete capito lo stesso. E persino che la morte potrebbe pure essere recente.
Eppure è stata mostrata una sposa, con un padre, una migliore amica e un futuro sposo. E nessuno di loro ha detto: “Visto che tua madre è morta…”

Il vostro cervello si è messo al lavoro, ha unito i pezzi forniti e tratto comunque quella conclusione.
Ha trovato il modo di identificare e di collocare ogni dettaglio inserito.
Avete intuito l’animo del padre, vi siete fatti un’idea dello sposo e anche dell’amica.
Tutto da soli.
Con poche semplici indicazioni. Che, nel passarvi lo stato emotivo di un personaggio e la motivazione che lo destabilizza, vi hanno elargito una marea di altre informazioni. Hanno bombardato il vostro cervello con stimoli variegati, esattamente come succede nella realtà. Per questo non avete avuto problemi a ricreare la situazione, seppure molto lacunosa e abbozzata.

Siete davvero certi che volete rinunciare a questo tipo di strategia?

Potete intuire l’enorme portata emotiva che gestire uno strumento del genere può generare?

Cominciate a prendere coscienza del fatto che il vostro cervello, e quello dei lettori, può fare grandi cose, se messo alla prova in maniera costruttiva. E muovetevi senza paura in quella direzione.

Ok.
Dov’è l’inghippo? Dove si cela il trappolone?
Non può essere tutto rose e fiori.

Eh, in effetti c’è.

Scegliere di mostrare significa scegliere di SMETTERE di emettere giudizi autoriali, ma rimettere questa possibilità solamente in mano al lettore (se avete letto la frase senza annodarvi la lingua, vi meritate un premio!).
E quindi questo necessita l’abbandonare un punto di vista rialzato e onnisciente, per abbassarlo e avvicinarlo a quello di un narratore che è più immerso, coinvolto emotivamente, e nei fatti.

Cosa comporta?

Ha due effetti diversi in base al lato del libro in cui vi trovate:

  • se siete il lettore, comporta che potreste perdere una guida affidabile e che non avrete nessuno che vi dica cosa dobbiate pensare, ma dovrete cominciare a far sgranchire i neuroni, in autonomia;
  • se siete autori, dovrete rassegnarvi al fatto che non potrete gestire tutto. Potrete gestire l’interpretazione attoriale dei personaggi, potrete scegliere i dettagli più significativi da inserire per perseguire lo scopo che vi siete prefissati, ma non potrete MAI più avere il controllo totale su quello che può e deve pensare il lettore. Perché lui non vi appartiene, e non vive nelle pagine del libro.

E questo non si limita al diritto di poter dire che la storia gli sia piaciuta o meno, che è comunque legittimo. Ma si parla proprio di un giudizio specifico e individuale che deriva da una relazione a tu-per-tu con la storia che ha fruito.
COSA ci vede nella storia non potrete più sceglierlo.

Il suo giudizio sulle vicende, sulle relazioni, sul carattere e la psicologia dei personaggi, sulle suggestioni e sulle atmosfere, è indipendente dal vostro volere.
E potrebbe essere diametralmente opposto in base a ciascuno di loro.

Vi faccio un esempio borderline per farvi capire dove le persone possono spaccare in due la loro percezione.

Sono appena uscita da lavoro e sono in macchina. Sto percorrendo la strada di campagna che faccio tutte le sere per tornare a casa.
Un capriolo attraversa la carreggiata d’improvviso. Per lo spavento, schiaccio il freno, sterzo bruscamente e finisco con la macchina dentro il fossetto laterale alla banchina. Il capriolo se ne va, illeso.
Io non mi sono fatta niente, ho un po’ di tachicardia, ma ho bucato una gomma.

“Che culo non mi sono fatta niente”, “porca puttana, capriolo maledetto, adesso devo spendere un sacco di soldi” o “perché non l’ho messo sotto? Ci veniva un sugo spettacolare”?

L’autore può limitarsi a far emergere ciò che il personaggio pensa:

  • lo spavento preso;
  • il sollievo;
  • la rabbia;
  • la disperazione;
  • tutto il corollario di quello che volete.

Ma il giudizio sul fatto in sé, e che valenza ha all’interno del contesto, lo avrà SEMPRE il fruitore. E non potrete mai controllarlo fino in fondo.

«E come può essere possibile?»

Perché, tornando al discorso di prima, ognuno di noi ha il proprio bagaglio di percezioni, esperienze e conoscenze a cui attingere.

L’identità culturale del lettore ha un peso ENORME nel gradimento di una data storia. Più il lettore conosce l’argomento trattato, più è in grado di seguire il passo intellettivo dell’autore, e più sarà in grado di instaurare un rapporto di collaborazione con lui. Vibrando alla stessa maniera e assecondando il percorso che è stato scelto per lui.
Allo stesso modo, lo stesso grado di competenza potrà fargli maturare una concezione dei temi trattati, e dei valori affrontati, che sia dissonante da ciò che voleva ottenere l’autore.

In ogni caso, se il lettore ha questa libertà, è sempre un bene.
Perché è giusto che abbia la possibilità di interagire fattivamente a livello mentale.
Significa che l’autore lo ritiene adeguatamente rispettabile da dargli l’opportunità di farsi un’idea indipendente.

Quindi è questo l’OBIETTIVO INTELLIGIBILE?

In parte.
Esiste un’occasione in cui l’autore ha l’ESIGENZA di mostrare per proteggere il lettore e salvaguardare la sua possibilità di comprendere a fondo la storia.

«E cioè, quando?»

Pensateci un po’: in quale situazione devo trovarmi per aver bisogno di un linguaggio secondario stratificato per far comprendere qualcosa a qualcuno?

Quando NON POSSO parlare apertamente.

OBIETTIVO INTELLIGIBILE

Abbiamo detto che per mostrare dobbiamo abbassare il punto di vista e metterlo in mano a un narratore che è più immerso nelle vicende della storia e più emotivamente coinvolto.
Questo porta con sé un problema di attendibilità del narratore.

Più il nostro narratore è attendibile, più ciò che mostra ci sarà utile a comprendere lo svolgimento della storia. E questo contribuirà a rendere fluida la fruizione emotivo-intellettuale.
Ma i narratori non sono sempre attendibili. Anzi. Abbiamo visto che spesso, per l’emotività e il coinvolgimento personali, oscillano fra l’attendibilità e l’inaffidabilità in misura variabile.
A volte è perfino giusto anche che siano completamente inaffidabili: abbiamo visto in altri articoli che la confusione mirata è fondamentale per poter demolire una verità e fare spazio per sostituirla con un’altra più adeguata ed efficace.

Allora che facciamo?

Se il narratore è INAFFIDABILE facciamo saltare tutto il teatrino, e ci intromettiamo perché è di parte e rischia di sviare il lettore da ciò che conta?
No.
Perché comprometteremmo gli altri due obiettivi per assecondarne uno.

Allora giochiamo d’astuzia. E diventiamo collusi.

Avete mai giocato a briscola? In quattro, intendo.
Se c’è una cosa che devo puntualmente farmi ridire sono i “segni” da fare per ammiccare le carte al compagno di squadra con cui sto giocando.
Sì, sono una frana. (Sad story).

Ma perché servono?
Perché in alcuni casi bisogna dissimulare per portarsi a casa la partita.
E se il nostro compagno di squadra ci dice di andare cauti in questa mano perché è messo male, ma poi ci simula un bacetto di sottecchi, noi possiamo comunque far finta di dover sacrificare obbligatoriamente un carico da dieci, far sprecare una briscola agli altri per cercare di accaparrarsi i punti, e castigarli con un briscolone da undici punti.
Sembra una supercazzola da bar, ma vi assicuro che non lo è.

Come si applica alla scrittura?

Con una sciarada.

L’autore ha la bocca tappata dal nastro adesivo, e il narratore tiene in mano le fila del gioco. Ma l’autore non può abbandonare il lettore in balìa del narratore, che potrebbe sviarlo. Così lascia delle briciole mostrate e lo induce a leggere fra le righe.

Fa parlare il narratore, ma sotto sotto, si sbraccia e spinge il lettore a capire il vero senso delle parole dette.

«Ma come?! L’autore si prende gioco del narratore?»

Sì. (Sapendo che il lettore gode di questa scelta.)

Stipula un patto segreto con il lettore.
Perché il suo fine ultimo è lui: il permettergli di capire cosa davvero vuole che tragga dalla storia, come bagaglio emotivo e intellettuale. A questo livello, si scopre un genere di collaborazione ulteriore: quella di contribuire a generare un giudizio morale maturo accessibile da entrambi i lati.

Questo genere di libri instilla nel lettore un piacere che è leggermente diverso dal semplice godersi gli eventi e provare l’empatia per i personaggi.
Alza un po’ l’asticella della difficoltà e ha bisogno di lettori “allenati” e che abbiano voglia di giocare al gioco dei sottintesi.
In genere, sono quei libri che vengono ritenuti difficili.

Non so se avete mai letto “La bussola d’oro” di Philip Pullman; se non l’avete mai fatto, ve lo consiglio.

Lyra sa leggere il suo Aletiometro (la bussola d’oro, appunto), che non è altro che una sorta di “orologio” con simboli al posto dei numeri. Le lancette scorrono sulle varie figure e l’interpretazione data dall’unione dei vari significati delle immagini, formula la risposta VERA a ciò che si è chiesto.
Ma vera per chi?

Per chi è capace di comprenderla.

Che ne so: il serpente può significare pericolo, inteso anche come presenza di persone non sincere. Ma se la lancetta ci torna una seconda volta sopra, allora può significare peccato, tentazione. Una terza volta? Mutamento, ma anche rinascita, visto che il serpente è come se abbandonasse la vecchia pelle per acquisirne una nuova ad ogni circolo vitale.

Ogni simbolo che appartiene alla nostra cultura gronda di significati che noi siamo abituati a dare per scontati, o che abbiamo assorbito in maniera inconsapevole.
Ma che siamo anche inconsciamente portati a interpretare se adeguatamente stimolati.

A conti fatti, il MOSTRARE incorpora i tre gradi di piacere personale del lettore, nel mettersi cerebralmente al lavoro quando fruisce una storia:

1_IL PIACERE DELLA COLLABORAZIONE CON L’AUTORE

È quello per cui il lettore non è un’entità passiva di fronte alla storia. Non la subisce, e, anzi, è l’autore a esaltare la sua importanza perché ci tiene che lui ne faccia attivamente parte.
Il lettore proverà piacere in base a quanto è competente e coinvolto.
Libri più semplici richiederanno uno “sforzo” minore e libri più complessi uno maggiore.

Un libro si ritiene semplice quando fa appello a un solo strato di interpretazione. Quello che vedi è quello che c’è.

Un libro che si ritiene complesso (o difficile) è quello in cui, dietro a quello che vedi, c’è molto altro.
E questo genere di storie non è alla portata di tutti.
Questo non significa che non “possano leggerle tutti”, ma che non tutti proveranno un piacere adeguato nel farlo.

TRAPPOLONE: la difficoltà del libro non deve derivare dalla scarsa fruibilità della storia – per negligenza, trascuratezza e nebulosità dovute all’inettitudine dell’autore.

La difficoltà deve essere su un livello intellettuale al rialzo, non al ribasso.

Come passare dal piacere di fare i cruciverba classici, a quello di completare quelli totalmente in bianco in cui devi inserire anche i quadratini neri, oltre alle parole.
Non ci sarebbe nessun tipo di piacere nel cimentarsi con un cruciverba in cui le risposte alle definizioni sono tutte sbagliate. Quello scatenerebbe solo rabbia per la mancanza di rispetto subita.

Costruire un sottotesto di significati nascosti e indizi porta al secondo grado di piacere, quello della DECIFRAZIONE.

2_IL PIACERE DELLA DECIFRAZIONE

È quel piacere che proviamo nel momento in cui siamo in grado di seguire le briciole che il narratore ci lascia. Quello di mettere insieme i pezzi, fare collegamenti concettuali, fare congetture su come potrebbe svilupparsi la storia. Anche capire chi è il colpevole in un giallo, o comprendere il nocciolo di un mistero.

È un po’ l’EFFETTO IKEA: ti do un mobile smontato, ti fornisco le informazioni per montartelo, insieme a un pacchetto di minuteria metallica, bestemmie svedesi, frustrazione emotiva e fiducia incrollabile nelle tue capacità manuali – e una brugola – e ti dico: “bene, adesso cerca di capire come montarlo senza rimetterci una mano”.

Veicola il piacere di provare emozioni autentiche, e non di seconda mano. Perché è chiaro che, sporcarsi le mani in primis è molto diverso dall’osservare altri che lo fanno al posto tuo.

Il piacere di decifrare si evolve a sua volta nel terzo piacere.

3_IL PIACERE DELLA COLLUSIONE.

Il piacere di affrontare un libro dal linguaggio stratificato deriva in parte dalla consapevolezza che alcuni di quei segnali non sono comprensibili e alla portata di “tutti” – che siano coinvolti nelle storia o che siano i fruitori, non ha importanza.
Di fatto, rende il lettore parte di una minoranza di “eletti” con un’intelligenza adeguata a comprendere il LINGUAGGIO SEGRETO dell’autore.

E in cui il narratore e gli altri lettori saranno coinvolti solo in veste di vittime inconsapevoli.

Eh, sì.
Perché il fruitore gode nel sentirsi all’altezza della seconda voce nascosta.
Si appaga nel rendersi conto che, oltre al velo delle parole, esiste un sub-mondo accessibile a pochi. E anche che, di fatto, lo colloca al di sopra perfino del narratore stesso che gli sta fornendo la storia, per porlo al fianco dell’autore.

È lo stesso piacere che si prova quando si comprende una battuta di spirito o si scorge un’allusione o una citazione dentro a un libro.
Per chi non ne conosce l’origine è solo una frase adeguata e contestualizzata come le altre presenti, per chi capisce da dove venga la citazione, beh, l’appagamento ha tutto un altro sapore.
Schiude la porta dell’ “Ehi, IO ho capito. E ti metto il carico, così ci portiamo a casa questa mano”.
E il livello di coinvolgimento e di stima, nei confronti dell’autore che sta dietro le quinte, aumenta.

Quindi, autore e lettore traggono un vantaggio reciproco a instaurare questo tipo di rapporto di mutua confidenza.

«Ma non c’è il rischio, alzando troppo la posta in gioco, di allontanare una fetta di pubblico?»

Ni.
Di sicuro non per aver mostrato.

Perché fornire i pezzi di un puzzle, e chiedere al fruitore di montarli insieme, è chiaramente più intellettualmente stimolante che fornirgli il puzzle già completo (o fargli vedere che lo sta montando qualcun altro) e dirgli: «Ok, gioisci di quanto si sono divertiti gli altri».

Detto questo, non si può avere la pretesa di piacere a tutti. Vale per le persone quanto per le storie.
Ogni autore dovrebbe saperlo.
Perché ogni storia ha il proprio lettore, e ogni lettore ha la propria storia.
E questo non può essere cambiato, per quanta voglia di essere trasversali si abbia.

La vera vittoria di questo meccanismo dimostrativo è che il lettore vince a prescindere.

Che fruisca la storia semplicemente, vivendola in superficie, o che la fruisca a vari livelli di profondità.
Lui nota ciò che è in grado di comprendere e carpire, non immaginando quello che “non sa di non sapere”.
E quindi non si sentirà mai manchevole o gabbato dalla dinamica dei tre piaceri, anche se penserà che lo sono stati gli “altri”: quelli che non hanno capito ciò che ha capito lui.

Però, la difficoltà può essere un deterrente momentaneo.

Gli unici che “perderanno” saranno quelli che non hanno i requisiti MINIMI per accedere a quel particolare libro. Ma solo fino al momento in cui il lettore non sarà pronto alla possibilità di elevarsi al livello del gioco proposto.
Come passare dal livello PRINCIPIANTE, per poi arrivare all’ESPERTO passando per l’INTERMEDIO e il DIFFICILE.
Basta andare per gradi.

Non è giusto che una storia mutili sé stessa per rendersi accessibile a tutti, ma è giusto che si renda, a tutti i costi, accessibile. Per questo si insiste sul DIMOSTRARE invece che sul RIASSUMERE. Per darle la possibilità di manifestarsi al meglio di sé, ed essere pronta a stimolare il lettore a evolversi e a mettersi in gioco.

Siete ancora certi che MOSTRARE sia un capriccio?

DIMOSTRARE o RIASSUMERE?
A voi la scelta…

«Ma, in definitiva, come si fa a MOSTRARE?»

Ecco, a questa domanda risponderò con il prossimo articolo.
E utilizzerò gli esempi che mi hanno fornito gli autori, con il gioco che avevamo proposto sulla pagina facebook di Redazione Coffa.

#ImpariamoInsieme

#DallaCoffaConFurore

#ShowDontTell   #Mostrare    #Raccontare

#DimostrareORiassumere

 

© Redazione Coffa ~ Erika Sanciu. Tutti i diritti riservati.

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