JUST A LITTLE “BEAT”: TEMPO, MOVIMENTO, CAMBIAMENTO IN UNA PICCOLA BATTUTA
Che cos’è un BEAT?
Si potrebbe credere che a una domanda così secca possa corrispondere una risposta altrettanto semplice.
In effetti… non è così.
Il punto è che con “Beat” si possono intendere ben tre cose differenti: due delle quali appartengono alla SCENEGGIATURA, e soltanto una alla SCRITTURA NARRATIVA.
Però sono tutte legate fra di loro, quindi vale la pena di perderci un attimo per capire bene.
Partiamo dalla questione più semplice.
Una delle colonne portanti della SCRITTURA NARRATIVA sono i DIALOGHI.
Dei DIALOGHI ne abbiamo già parlato in alcune occasioni, in relazione ai DIALOGUE TAG e ai DIALOGHI TRASVERSALI, ma ci torneremo meglio sopra, e in modo più approfondito, un’altra volta.
Quello che ci importa di sapere adesso è che i DIALOGHI possono essere composti da:
- BATTUTE SEMPLICI;
- BATTUTE RETTE ESTERNAMENTE;
- BATTUTE COMPOSTE.
Le BATTUTE SEMPLICI sono facili da capire: si aprono e si chiudono e non hanno bisogno di nient’altro che di loro stesse.
«Mi sembra davvero una buona idea farmi la carbonara per pranzo.»
«Anche se non la digerisci?»
«Già. Di qualcosa bisogna pur morire…»
È solo un piccolo esempio, ma è per far capire che la battuta si “regge” da sola.
Non ha niente, né prima né dopo, che la COMPLETI.
Non ha importanza che venga messa fra virgolette, caporali o trattini medi: funziona da sé, perché si presuppone che il TONO e la VOCE del personaggio che la pronuncia si possano evincere da ciò che esprime e dal contesto già costruito nella SCENA.
“Sei proprio sicuro di voler uscire con quel cappello?”
– È il postino! Vai tu ad aprire la porta?
TRAPPOLONE:
Si consiglia di non mettere troppe BATTUTE SEMPLICI tutte di fila perché si potrebbero verificare alcune cose spiacevoli:
- la perdita dell’ATTRIBUZIONE del PERSONAGGIO PARLANTE: cioè, in uno scambio botta e risposta, a un certo punto si potrebbe perdere di vista CHI stia dicendo COSA. Soprattutto quando le persone coinvolte nel dialogo sono più di due e/o hanno una VOCE che non è facilmente distinguibile l’una dall’altra;
- l’impossibilità di evincere COME i personaggi stiano pronunciando le battute: se è un dialogo che richiede cambi di intenzione, sfumature di significato, struttura di SOTTOTESTO e SOTTINTESI, lasciare che siano le sole PAROLE ad autodefinirsi potrebbe essere “pericoloso”, e fuorviante.
- la sensazione di leggere delle TESTE PARLANTI: senza CONTESTO a dare corpo ai PERSONAGGI, si ha la sensazione che esistano solo delle teste fluttuanti in uno spazio grigio che parlano e basta. (No buono.)
- la perdita di EFFICACIA narrativa: ma questo ha più che altro a che fare con l’EQUILIBRIO fra gli elementi che compongono il testo. L’ideale sarebbe creare un’alternanza elegante e suggestiva di ciò che sta avvenendo nella SCENA, miscelando AZIONE, DESCRIZIONE e DIALOGO. In modo che la pagina diventi tridimensionale e percettiva, per il lettore che sta mettendo in scena nella propria testa.
Quindi, CHI dice COSA, COME e PERCHÉ, dovrebbero essere i punti cardine su cui fare perno per i nostri DIALOGHI.
Esistono delle eccezioni?
Yes.
C’è Nicolò Targhetta, per esempio, che attraverso la pagina Facebook Non è successo niente con molti post ci dimostra che, padroneggiando la qualità dei dialoghi, si possono fare grandi cose anche senza l’ausilio di DIALOGUE TAG e BEAT.
Che si può essere in grado di far “visualizzare” il contesto di una conversazione, anche attraverso le sole parole espresse. Ma rimanendo sempre fedeli al far emerge CHI, COSA, COME e PERCHÉ.
Non è un approccio che consiglierei a tappeto, applicato a un mezzo diverso dai post di Facebook ma, di sicuro, se ne può trarre un grande insegnamento in merito:
Il suo potere comunicativo si è rivelato così efficace da valergli lo scouting e la pubblicazione da parte di alcune case editrici di tutto rispetto.
Se volete, date un’occhiata alla pagina Facebook di Non è successo niente e provate ad analizzare i meccanismi su cui “gioca” per creare le sue suggestioni dialogiche. Se ne possono trarre diversi insegnamenti validi, per potenziare anche i vostri dialoghi. Uno fra tutti quanto sia importante il CONTENUTO della battuta in sé. Ci può essere un intero mondo di significati al suo interno, se ne cogliamo il potenziale. E dovremmo sempre affrontare ogni parola spesa come se ci costasse mille euro. In modo da riuscire a scegliere sempre e solo le parole migliori per dire ciò che vogliamo, nel migliore dei modi possibili.
Comunque, tornando alla SCRITTURA NARRATIVA, dicevamo: COSA, CHI, COME, PERCHÉ.
Se per il COSA possiamo appoggiarci alle battute stesse e a ciò che le parole contenute al loro interno esprimono, gestendole attraverso la PUNTEGGIATURA, la MODULAZIONE, il NORMARIO EDITORIALE e la loro TRASVERSALITÀ (tenendo conto che anche i SILENZI parlano), per gli altri aspetti dobbiamo lavorare sul contorno.
E qui ci vengono in aiuto i DIALOGUE TAG e i BEAT.
Le BATTUTE RETTE ESTERNAMENTE sono completate dai DIALOGUE TAG (che in italiano si chiamano SINTAGMI DI LEGAMENTO o VERBI DI ATTRIBUZIONE) che hanno la facoltà di evidenziare sia il PARLANTE, sia il MODO in cui è espressa la battuta.
«Pss! Mi vedi? Sono qui…» bisbigliò Manfredonio da dietro la siepe di alloro.
In questo caso ci dice COME viene pronunciata la battuta (bisbigliando) e CHI la pronuncia (Manfredonio).
(Non chiedetemi perché ho scelto quel nome: non ne ho idea…)
Comunque, ci sono due cose da far notare:
- il DIALOGUE TAG va SEMPRE messo in MINUSCOLO. La punteggiatura contenuta fra le virgolette, i caporali e i trattini non influisce sul resto della frase – anche perché (buona parte) ha carattere INTONATIVO – anche nel caso di un punto fermo.
«Sei matto?» chiese Pinco Pallino.
«Ho detto di no. Dannazione a tutti gli antiprocioni!» sbottò.
«Non. Mi. Toccare.» dichiarò fredda.
Quello che potremmo fare è tranquillamente riformulare la frase in modo indiretto e/o trasformare la battuta di dialogo in un COMPLEMENTO OGGETTO e il senso non cambierebbe.
Dichiarò fredda (cosa?) → «Non. Mi. Toccare.»
Dichiarò fredda (cosa?) → di non voler essere toccata.
BONUS: è un DIALOGUE TAG anche se si trova prima della battuta, per la stessa motivazione scritta sopra.
Pinco Pallino chiese: «Sei matto?».
(Sì, è un po’ desueto. E, sì, c’è il punto fermo anche se c’è il punto interrogativo, perché quel punto si riferisce alla frase che “contiene” la battuta e il punto interrogativo ha carattere intonativo, utile a comprendere il modo in cui viene espressa la battuta. Ma non divaghiamo. Magari ne parliamo meglio quando parleremo della punteggiatura nei dialoghi.)
- il DIALOGUE TAG, in un dialogo – anche se può sembrare un controsenso – è inutile l’80% delle volte.
Un po’ perché DIALOGUE TAG come “chiese”, “dichiarò”, “sbottò” sono superflui se già le parole all’interno della battuta rendono palese il tono, lo stato emotivo, l’attribuzione del parlante, e l’intonazione con cui vengono espresse.
Un po’ perché la costruzione della scena e la strutturazione del dialogo dovrebbero essere in gran parte responsabili nel MOSTRARE in modo palese la dinamica del DIALOGO.
Come nell’esempio:
«Pss! Mi vedi? Sono qui…» bisbigliò Manfredonio da dietro la siepe di alloro.
Il DIALOGUE TAG “bisbigliò” diventa inutile, perché “Pss!” già mi sta dicendo che la battuta viene espressa in un sussurro. A quel punto si può lavorare (meglio) sul fatto che Manfredonio sia dietro la siepe.
(Ohi ohi… Manfredonio. Vabbè, andiamo avanti.)
Comunque non vanno eliminati del tutto: c’è un buon 20% di casi in cui sono legittimi.
Ci conviene sceglierli con prudenza, prediligendo quelli che ci aiutano a capire COME la battuta venga espressa, se non è possibile evincerlo dal contesto.
(Ma di tutto questo ne avevamo parlato, e in modo più approfondito, in questo articolo: MI FA TRE ETTI DI DIALOGUE TAG AFFETTATO FINE?)
Ed è proprio per questo che entrano in scena i BEAT “DIALOGICI”, che vengono chiamati anche ACTION TAG (o INTERCALATI FUNZIONALI, in italiano) perché inseriscono un gesto, un’azione o una piccola considerazione del personaggio, a completamento della battuta.
Possono essere inseriti sia prima che dopo la battuta. E, nel caso di una BATTUTA COMPOSTA, anche nel mezzo fra due parti espresse da uno stesso personaggio.
Le si avvicinò all’orecchio. «Sei bellissima, stasera…»
«Io. Io! IO!» Pollicino si sbracciava, saltando più che poteva.
In questo caso non si può esattamente parlare di BATTUTE RETTE ESTERNAMENTE, perché BATTUTA e FRASE sono “slegate” fra di loro. Nonostante ci sia un rapporto di “completamento” quasi indiretto.
Certo, sono complementari, cioè possono stare bene insieme e incastrarsi adeguatamente, ma non sono necessariamente legate fra di loro.
Il gesto dà valore alla battuta e ci dice qualcosa anche del modo in cui viene espressa.
Nel primo caso, probabilmente in modo sussurrato e/o complice.
Nel secondo, in modo più animato e concitato. Anche entusiasta.
Essendo slegate dal rapporto di consequenzialità logico-sintattica, la punteggiatura è differente.
«Io. Io! IO!» Pollicino si sbracciava, saltando più che poteva.
Ma anche:
«Io. Io! IO!» Si sbracciava, saltando più che poteva.
Vengono chiamate BEAT anche le piccole particelle che fra una parte e l’altra della battuta esprimono uno stato d’animo o un pensiero del personaggio.
Metto degli esempi, con quattro segni di interpunzione differenti a sostegno di ciò che abbiamo detto prima.
Ma che cazzo? «Non ci penso nemmeno. È un cazzo di suicidio.»
Ma che cazzo! «Ti sei bevuto il cervello?»
Dai, fatti coraggio… «E se ti chiedessi di venire da me?»
Era ora. «Ma non avevamo detto alle otto? Ti aspetto da venti minuti…»
Tutte queste evenienze sconfinano ovviamente nelle considerazioni del personaggio, ma assolvono la stessa funzione dei gesti tangibili perché ci indicano lo STATO EMOTIVO che “muove” il parlante. E quindi non solo ci suggeriscono COME la battuta venga espressa senza dirlo apertamente, ma sconfinano anche nel PERCHÉ venga pronunciata.
Allo stesso modo, non importa che vengano prima della battuta: possono trovarsi anche dopo di essa.
«Ti sei bevuto il cervello?» Roba da pazzi…
E, per voler completare il quadro, anche nel mezzo di una BATTUTA COMPOSTA.
«Io…» Prese un respiro profondo. «Ecco. Devo dirti una cosa.»
«Io…» Questa volta mi uccide… «Ecco. Devo dirti una cosa.»
(In alcuni NORMARI EDITORIALI si sceglie di mettere i pensieri del personaggio in corsivo. Valgono le stesse considerazioni già espresse.)
«Io…» Questa volta mi uccide… «Ecco. Devo dirti una cosa.»
Inoltre, le tipologie di BEAT possono anche essere combinate insieme, unendo i gesti alle considerazioni/stati d’animo:
Era ora. «Ma non avevamo detto alle otto?» Batte l’indice sull’orologio. «Ti aspetto da venti minuti…»
(Ma attenzione a non esagerare, troppe battute con costruzione complessa possono sviare e disturbare, se ce ne sono troppe affiancate. Ce n’è un esempio nell’articolo: COME RADDRIZZARE UN TORTO, in cui è stato analizzato proprio un dialogo che risultava appesantito da troppi (e mal gestiti) DIALOGUE TAG e BEAT.)
Le BATTUTE COMPOSTE si formano anche con i DIALOGUE TAG, ovviamente.
«Dieci!» gridò Luca. «È il numero di procioni che vorrei in casa.»
(Luca dev’essere un tipo in gamba. A quanto pare…)
Bene, bene.
In SCENEGGIATURA, invece, i BEAT hanno due accezioni diverse, anche se hanno a che fare sia con i DIALOGHI, sia con le AZIONI.
E quindi la cosa si complica.
«Eh. Ma che mi frega di sapere cosa sono in una sceneggiatura, io sono un autore di romanzi!»
Ecco. Comprendere che funzione abbiano in uno SCRIPT ci aiuta a “potenziare” la loro efficacia, anche nel caso in cui ci trovassimo “solo” a scrivere un romanzo. Esplorare il senso più ampio degli strumenti della scrittura conferisce padronanza, e la capacità di creare più livelli di efficacia.
E poi, non si può mai sapere. Molti autori spaziano fra letteratura e cinema; le due cose non si escludo a priori. Anzi. Basta solo capire le dinamiche su cui poggiano, e i princìpi e le regole che le governano.
Quindi, potrebbe essere superfluo dire che anche in uno script dialoghi e azioni sono proprio le colonne portanti, ma noi lo diciamo lo stesso. Per sicurezza.
In una sceneggiatura, ancor meno che in un testo narrativo, non c’è spazio per gli “sprechi”.
Tutto quello che è nello script è calibrato al millimetro e SERVE assolutamente. E non parlo solo di parole espresse dai personaggi, ma proprio di tutta la progettazione globale della storia.
Anche perché, e non scordiamocelo mai, una sceneggiatura non è un testo “diretto” ma “di passaggio”. Non è il prodotto finale che verrà dato allo spettatore: è il testo UTILE a creare adeguatamente un film; che poi sarà il prodotto da dare al fruitore.
In più, deve essere condensato al massimo perché ha una durata (quasi) prestabilita: non si “può” far durate un film diciassette ore, ma nemmeno cinque o sei. Si perderebbe l’attenzione dello spettatore.
Quindi, portiamoci a casa il fatto che è un testo che verrà letto da vari livelli di “addetti ai lavori”.
E questo significa che dev’essere sia estremamente chiaro a guidare l’occhio di chi lo legge; sia ammaliante ed evocativo. Perché deve suggerirci il tipo di atmosfera, il taglio e il contesto in cui la storia si dipana.
Ma, soprattutto, deve procurarsi l’approvazione per essere messo in produzione: deve valere il potenziale investimento futuro. Altrimenti quel film non vedrà mai la luce.
Cooomunque. Visto che non possiamo (tendenzialmente) esplorare in modo diretto la psicologia intima del personaggio, dobbiamo fare in modo che quello che si porta dentro traspaia visivamente. Dall’ambiente, dalle parole degli altri personaggi, dalle sue interazioni con loro (o con lo spettatore).
E questo è un punto fondamentale: se una cosa non viene inquadrata, menzionata o suggerita, semplicemente non esiste.
Per esempio, non importa se in una SCENEGGIATURA il nome del personaggio è SEMPRE evidenziato prima che esprima le sue battute. Se nessuno dei personaggi trova l’occasione di menzionare (o mostrare con un espediente) il suo nome, lo spettatore non lo saprà mai.
(Come in Fight Club. Coff! Coff!)
Se non sapete come sono formattate più o meno universalmente le sceneggiature (cioè alla maniera AMERICANA), è giusto sapere che sostanzialmente sono composte da pochi elementi ricorrenti, di base.
INTESTAZIONE DI SCENA:
In MAIUSCOLO, identifica il numero di scena, il luogo in cui ci troviamo (sia inteso come ambiente, ma anche se al chiuso o all’aperto), e il momento in cui si verificano gli eventi (per una questione di costruzione di luci e di scansione temporale delle scene).
AZIONE o DIDASCALIA:
È la parte in cui viene descritto cosa facciano i personaggi, cosa si veda in scena e cosa si senta.
(BONUS: tutte le sceneggiature vengono scritte con il font COURIER perché, in linea di massima, definisce la tempistica della durata del girato.
100 pagine di sceneggiatura = (circa) cento minuti di girato.)
In genere, a ogni cambio di inquadratura “corrisponde” una riga vuota fra le didascalie.
DIALOGO:
Cioè tutto quello che i personaggi si dicono, che siano in scena o fuori campo.
A loro volta, i DIALOGHI sono composti da tre elementi:
- il NOME del personaggio;
- le (eventuali) INDICAZIONI PARENTETICHE. Cioè delle indicazioni che ci dicano come, o verso chi, viene espressa la battuta;
- la BATTUTA.
TRANSIZIONE:
È un’indicazione di montaggio, scritta in maiuscolo e tendenzialmente allineata a destra invece che a sinistra, e che ci dice come si passa da una scena all’altra. Non solo in termini visivi, ma anche se c’è stato un passaggio di tempo (ecco, in questo caso invece si può trovare allineata a sinistra, ma sempre in maiuscolo).
Se non viene espressa nessuna indicazione di transizione, viene dato per assodato che la scena si chiude con uno STACCO su quella successiva. Se potessimo assimilare questo tipo di transizione alla punteggiatura, potremmo dire che fra una scena e un’altra viene piazzata di default una VIRGOLA.
Che poi è il modo con cui siamo abituati a fruire un film o una puntata di una serie TV: c’è un taglio netto che si apre su una nuova scena.
Di tutti questi elementi, quelli che ci interessano per parlare di BEAT sono i DIALOGHI e le DIDASCALIE (AZIONI).
BEAT DIDASCALICO:
Cominciamo dalla cosa più semplice: nella costruzione di una scena, si chiamano BEAT tutte quelle azioni e quei gesti che in una DIDASCALIA, di fatto, comportano un piccolo cambiamento significativo nello svolgimento della scena stessa. Piccole battute temporali, che scandiscono il movimento dei personaggi e dello svolgimento degli eventi.
In uno SCRIPT si manifestano anche attraverso l’evidenziazione di oggetti o VERBI che possono essere scritti (anche) in MAIUSCOLO, proprio per dare senso al compito svolto nella sezione descrittiva. Come degli accenti, fanno soffermare lo sguardo sul cambiamento che sta avvenendo e ti dicono: “Guarda bene questa cosa perché è importante”.
E se già consideriamo che in una sceneggiatura ci sono solo le cose davvero importanti, in quel caso ci dice che sono “ancora” più importanti.
Ma perché?
Accentuazioni di questo tipo, relative sia ai gesti che ai particolari che devono rimanerci impressi mentre leggiamo lo script, ci dicono che, di BEAT in BEAT, le scene evolvono.
E che il fruitore deve fare attenzione a quella scansione visiva confezionata per lui.
Questo si tradurrà in scelte specifiche d’inquadratura, atte a guidare gli occhi dello spettatore nella scena, perché non sia indotto a farsi sviare da altri elementi presenti sullo schermo.
Lo aiutano ad avvicinarsi o allontanarsi; a rimanere focalizzato sull’intento della scena e degli elementi che la compongono; oppure offrono la possibilità di sviare il fruitore di proposito, mistificando su particolari che altrimenti coglierebbe troppo presto o nella maniera sbagliata.
Sono accenti che possono esteriorizzare un aspetto interiore/psicologico del personaggio, che possono metterci in condizione di fare attenzione a uno specifico movimento, o al tipo di giudizio che stiamo maturando per un personaggio.
Semplicemente: ci manipolano. E inducono il nostro cervello a rimanere più attento, provare più empatia, mettere insieme gli indizi, emozionarsi, divertirsi, preoccuparsi.
Cosa significa quel gesto che ha fatto?
Perché nasconde quella cosa in tasca?
Perché tiene salda la mano sull’impugnatura del pugnale?
E quello sguardo di traverso?
Quell’espressione appena accennata?
Sta cambiando idea?
Oh, dai… si stanno innamorando…
Mmh. Quello non la racconta giusta.
Oddio, e se adesso rimane coinvolto nella sparatoria?
Ecco. Tutto questo, grazie a un’oculata gestione degli eventi mostrati.
«Perché ci aiuta nella scrittura narrativa?»
Eh. Perché prendere confidenza con questo meccanismo ci induce a fare più caso a ciò che mettiamo in scena. Ci aiuta a comprendere che ogni gesto ha una specifica autorevolezza intrinseca (per il nostro cervello di fruitori) e che in automatico noi decodifichiamo quei gesti affibbiando uno specifico significato.
Perché siamo abituati a farlo anche nella realtà.
Quindi, padroneggiare la gestione dei micro-cambiamenti nella scena, attraverso una selezione dei GESTI e dei PARTICOLARI mostrati, ci aiuta a essere più efficaci e “ficcanti”. Rendendo più efficaci, di conseguenza, anche i macro-cambiamenti.
Ma non solo, ci permette anche un altro vantaggio: collocare i DIALOGHI in contesti dinamici di azioni evocative. In modo da ottenere il massimo da entrambi.
Ci salva da dialoghi troppo verbosi, ridondanti, inconcludenti che si trascinano senza arrivare mai al vero punto d’interesse.
E, per mettere in pratica questo espediente, vi basterà fare un piccolo esperimento: prendere un dialogo già scritto in una scena e pensare a cosa succederebbe se il volume della voce dei personaggi fosse impostato sullo zero.
Si capirebbe ancora qualcosa della scena e della dinamica fra i personaggi che la governa?
Quanto?
Be’. Avere un contesto dinamico, che accolga adeguatamente le parole pronunciate, ci permette di risparmiare tante battute inutili, per concentrarci su quelle che esprimono al massimo quello che vogliamo dire, nel modo migliore in assoluto. E, soprattutto, ci permette di dare risalto al silenzio e ai NON DETTI fra i personaggi. Che sono importanti tanto quanto ciò che si dicono.
Quindi, appurando che anche i gesti hanno voce e accenti in una narrazione, e che possono simboleggiare la scansione di cambiamenti significativi, passiamo all’ultimo BEAT da comprendere.
BEAT PARENTETICO:
Dicevamo che i DIALOGHI sono composti da: NOME del personaggio, INDICAZIONI PARENTETICHE, BATTUTA.
Il BEAT in un DIALOGO di una SCENEGGIATURA fa parte delle INDICAZIONI PARENTETICHE: quelle cioè che ci dicono COME venga espressa la battuta. Con che tono, se contemporaneamente a uno specifico gesto, o verso chi.
Più precisamente è una pausa particolare, che presuppone un CAMBIAMENTO di TONO o di INTENZIONE nella battuta.
Non è la semplice sospensione di un attimo, prima che il personaggio parli nuovamente, ma proprio un cambiamento di direzione chiaro e verificabile. Come se il personaggio “non fosse più” quello di un attimo prima. Come se la scansione visiva e temporale avesse fatto un passo in avanti, allontanandoci da quel momento.
Infatti non è insolito trovare in un dialogo da sceneggiatura la dicitura parentetica “(pausa)” alternata a “(beat)”, coesistendo nello stesso SCRIPT. Proprio perché sono due cose DIVERSE.
A livello recitativo, questa distinzione fra le indicazioni, aiuta gli attori a comprendere come devono trattare la battuta.
Un esempio molto carino e divertente, lo possiamo trovare frequentemente in How I met your mother. In quella serie, il BEAT PARENTETICO viene usato spesso per accentuare il cambio di atteggiamento degli attori e quindi per mantenere alto il tenore comico degli eventi riportati. Infatti viene declinato in tantissimi modi diversi, anche nello SCRIPT. Possiamo trovare la semplice dicitura “(beat)” ma anche una versione potenziata, affiancata al tipo di cambiamento che ci si aspetta che venga espresso recitando: “(beat, realizzando)”, “(beat, pensandoci)”, etc.
Per mostrare come viene tradotto visivamente, ho trovato un piccolo spezzone dalla prima puntata della serie. Ed è interessante mettere a confronto lo SCRIPT con la resa finale sullo schermo.
Dunque, cosa ci portiamo a casa dalla comprensione dei BEAT, e delle loro differenze di applicazione?
Be’. Intanto, comprendiamo che hanno a che fare con l’espressione del DINAMISMO e del CAMBIAMENTO in scena. Poi, ci forniscono un focus rispetto a dove vogliamo guidare l’attenzione del lettore (che sia di sceneggiature o di narrativa).
Ci insegnano l’importanza cruciale che ha la QUALITÀ dei DETTAGLI che inseriamo in una narrazione (qualsiasi forma abbia) e quanta potenza si nasconde dietro alle sfumature che riusciamo a creare dalla GESTIONE DELLE INFORMAZIONI coinvolte.
Pensateci, la prossima volta che vi accingete a progettare e scrivere una scena. Pensate alle fasi che la compongono e a come si susseguono, dall’OBIETTIVO alla RISOLUZIONE, a come permettono di mutare il CONFLITTO, gestendo lo slittamento di potere in corso.
E poi pensate moltissimo alle parole che avete usato per mettere in scena i vostri personaggi e/o l’ambiente in cui sono inseriti.
Sono particolari abbastanza evocativi?
Sono i migliori che potevate mettere in campo?
Sono adeguati a contenere le parole che si scambiano?
Ci danno il dinamismo necessario a comprendere cosa stiano facendo nel frattempo?
E, le loro considerazioni personali inespresse, rappresentano un cambiamento di atteggiamento verificabile dall’esterno, o no?
I personaggi sono gli stessi che erano un secondo prima?
Saranno gli stessi dopo la prossima battuta?
Ragionando su queste sfumature, si può accedere a una gamma vastissima di possibilità narrative. E acquisire una vividezza emotiva che può solo giovare a chi scrive una storia. Qualsiasi sia la sua forma.
È un buon modo per mettere un altro strumento nella propria CASSETTA DEGLI ATTREZZI.
Non si sa mai…
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