DALLA COFFA CON FURORE,  UN PROCIONE AL GIORNO

LA FORMA DELLA SOSTANZA

«Meglio la forma o la sostanza?»

«Se la mia storia è avvincente ma ci sono degli errori ortografici è penalizzata agli occhi di un editore?»
«E cosa dice di me come autore?»

«Cioè, davvero mi state dicendo che sono un cialtrone che non sa scrivere se quello che scrivo è stupefacente ma mi lascio dietro degli errori?»

Queste sono solo alcune delle domande che girano nell’ambiente editoriale piccolo.
Dico nel piccolo, perché alcune domande non se le pongono più coloro che hanno acquisito una certa consapevolezza del mestiere. Cioè coloro che si approcciano alla scrittura in modo profondo e strutturato. Professionale.

Credo che la diatriba “è meglio la sostanza o la forma?” non morirà mai, e credo che ci siano diversi strati di discussione da poter intraprendere al riguardo, ma credo anche che Robert McKee ci offra uno spunto molto interessante al riguardo, nelle primissime pagine di Story; e che possiamo utilizzare per ragionarci sopra.

Ognuno come preferisca.

Quando sono andato a Los Angeles, per continuare a mangiare e riuscire a scrivere ho fatto ciò che fanno in tanti: ho letto. Lavoravo per la United Artists e la NBC, analizzando possibili sceneggiature per lo schermo e la televisione. Dopo aver letto circa duecento copioni mi resi conto che avrei potuto scrivere in anticipo la scheda di commento, limitandomi a cambiare il titolo del film e il nome dello sceneggiatore. Mi ritrovavo invariabilmente a scrivere la stessa relazione:

“Belle descrizioni, dialoghi recitabili. Alcuni momenti divertenti, alcuni momenti toccanti. In generale, un copione con parole ben scelte. La storia, tuttavia, non regge. Le prime trenta pagine sono piene di informazioni, le altre non riescono mai a decollare. La trama principale, ammesso che ce ne sia una, è piena di coincidenze, imprevisti e motivazioni deboli. Non si capisce chi sia il protagonista. Conflitti momentanei e non collegati fra loro potrebbero trasformarsi in sottotrame, ma non ci riescono mai. I personaggi vengono rivelati solo superficialmente. Non c’è mai un momento di sguardo profondo nell’intimità di queste persone o nel loro ambiente sociale.
È una raccolta informe di episodi prevedibili raccontati male e pieni di cliché, che arranca fino a scomparire in una nebbia inutile. BOCCIATO.”

Non ho invece mai scritto una scheda di questo tipo:

“Storia favolosa. Mi ha afferrato dalla prima pagina e mi ha tenuto avvinghiato fino all’ultimo. Il primo atto raggiunge un improvviso climax, che si sviluppa in una superba tessitura di trama e sottotrame. Rivelazioni sublimi del personaggio nel suo intimo.
Approfondimenti originali della società in cui vive. Mi ha fatto ridere, mi ha fatto piangere. Nel secondo atto giunge a un climax tanto commovente da credere che la storia sia finita. Però dalle ceneri del secondo atto questo sceneggiatore ha creato un terzo atto di tale forza, bellezza e magnificenza che sto scrivendo questa relazione steso sul pavimento. Tuttavia questo copione è un incubo grammaticale di 270 pagine, dove una parola su cinque è scritta male. Il dialogo è così intricato che persino Laurence Olivier non riuscirebbe a cavarsela. Le didascalie sono piene di indicazioni per la cinepresa, spiegazioni sul sottotesto e digressioni filosofiche. Il testo non è neanche battuto nel formato adatto. Si tratta ovviamente di uno sceneggiatore dilettante. BOCCIATO.”

Se avessi scritto questo commento avrei perso il posto.
Sulla targhetta della mia porta non c’è scritto, infatti, “Ufficio Dialoghi” o “Ufficio Descrizioni”. C’è scritto “Ufficio Storie”. Una buona storia rende possibile un buon film, mentre l’incapacità di far funzionare la storia garantisce inevitabilmente il disastro. Un lettore di copioni che non sappia comprendere questo fatto fondamentale merita di essere licenziato.
In realtà è sorprendente quanto sia raro trovare una storia scritta con buon mestiere che presenti un dialogo scadente o una descrizione noiosa. In genere, migliore è la narrazione, più intense sono le immagini e più è acuto il dialogo. Mentre la mancanza di sviluppo, le false motivazioni, i personaggi ridondanti, il sottotesto vuoto, i buchi di trama e altri problemi del genere sono alla base di un testo noioso e inefficace.
Avere talento letterario non è sufficiente. Se non sapete raccontare una storia tutte le belle immagini e tutte le sottigliezze di dialogo che avete perfezionato nel corso di mesi saranno solo uno spreco di carta. Ciò che noi creiamo per il mondo e ciò che il mondo esige da noi è una storia. Ora e per sempre.
Molti sceneggiatori producono con generosità dialoghi eleganti e descrizioni precise basandosi su racconti anoressici, poi si chiedono come mai i loro copioni non vengano mai prodotti. Mentre altri, con un modesto talento letterario ma una grande forza narrativa, si godono il profondo piacere di guardare i propri sogni vivere sullo schermo.
Dello sforzo creativo complessivo di un’opera ultimata il 75% e anche più della fatica di uno sceneggiatore va nella forma della storia. Chi sono questi personaggi? Che cosa vogliono? Perché lo vogliono? Cosa fanno per ottenerlo? Cosa glielo impedisce? Quali sono le conseguenze? Trovare le risposte a queste domande centrali e trasformarle in una storia è il nostro travolgente compito creativo.
Progettare la forma della storia mette alla prova la maturità e la capacità di intuizione dello sceneggiatore, la sua conoscenza della società, della natura e del cuore umano. La storia richiede sia un’immaginazione brillante che un forte pensiero analitico. Esprimere se stessi non è mai un problema perché, che lo si voglia o no, tutte le storie, oneste o disoneste, sagge o sciocche, rispecchiano fedelmente il loro autore e mettono a nudo la sua umanità… o la sua assenza di umanità. In confronto a questa cosa terrificante scrivere un dialogo è un gradevole diversivo.
Così lo scrittore abbraccia questo principio: racconta una storia… e poi si paralizza. Perché, che cos’è una storia? Una storia funziona un po’ come la musica. È una vita che ascoltiamo motivi musicali. Possiamo anche ballarli e cantarli. Pensiamo di sapere la musica fino al momento in cui tentiamo di comporla… e ciò che esce dal nostro pianoforte fa drizzare il pelo al nostro gatto.

Ok. Facciamo un passo indietro.

Cosa dice questo estratto?

Dice diverse cose interessanti.

La prima è sicuramente che esiste una stretta corrispondenza fra un prodotto di qualità e la capacità delle mani che lo creano. Il fatto che da una penna sgrammaticata e ingenua difficilmente possa uscire un capolavoro mette in correlazione stretta il fatto che le belle storie hanno bisogno di gente “competente” in grado di scriverle.

E qui arriviamo alla considerazione numero due: competenti in cosa?
Nel trovare una bella assonanza fra le parole? Nel rivomitare profluvi di paroloni ricercati? Nel dimostrare di avere un vocabolario vasto come l’hangar di un Boieng?

No. Nel saper distinguere il COSA viene fatto dal COME.

Se non sappiamo COSA serva alla nostra storia, non sapremo mai COME metterla giù nel modo migliore. Perché, avere coscienza di ciò che serve ti mette in condizione di pensare agli elementi che sono necessari a renderla in un certo modo, e SUCCESSIVAMENTE ti dà la capacità di metterli in campo in un certo modo rispetto a un altro.
Di utilizzare quello migliore in assoluto per quella specifica evenienza.

Avete presente quando avvengono le tragedie perché si è costruito in zone a rischio ambientale?
Dove non si è tenuto conto del suolo su cui si è edificato e alla prima pioggia torrenziale il versante frana portandosi dietro tutte le case costruite sopra?

Ecco. Provate a pensare.
Quanto ha senso scegliere le begonie al posto delle ortensie da mettere in giardino se poi il terreno su cui poggia la nostra villa è cavo?
Non molto, vero?

Questo non vuol dire che le ortensie non siano belle. Io le amo. Ma hanno ragione di essere inserite in un secondo momento. In un giardino che me lo permetta e in cui possano piantare radici in profondità, per nutrirsi di quel terreno corposo che sta al di sotto.

Bisogna tornare a comprendere che scrivere non è mettere insieme delle belle parole, e nemmeno delle parole eccezionali.

Lo dice lui: avere talento letterario non è sufficiente, se non sapete raccontare una storia.

Per questo moltissime persone ritenute “prive di talento” ma che incanalano una potenza narrativa travolgente, capace di calamitare la gente utilizzando parole semplici, hanno successo.
Perché, al di là del cesellare i fronzoli riescono a prendere il nucleo intimo delle persone e a trasporlo.
Hanno coscienza del cosa e gli fanno fare il 75% del lavoro.

Saranno capolavori?
No, non di certo. Ma hanno fallito il loro intento?
No. Nient’affatto.

Il concetto di arte è molto sfuggente. E anche molto sopravvalutato a volte.

Io vorrei veder parlare di arte, e di “intenzione” dell’arte, coloro che ne comprendono il valore intrinseco, che ne capiscono i meccanismi, che respirino i principi.
Perché quelle persone lì riescono a vedere oltre. Oltre la patina superficiale. E non hanno paura di infilarci le mani dentro fino ai gomiti, per trovarne il cuore. Quello vero.

Ritorniamo al nucleo.
Ritorniamo a capire cosa sia una storia. E cosa debba avere per essere tale, perché altrimenti sarà soltanto un nuovo componimento vuoto, che se ne volerà via nel vento appena qualcuno ci soffierà sopra.

“Ciò che il mondo esige da noi è una storia. Ora e per sempre.”

Ma voi sapreste rispondere davvero alla domanda: “Che cos’è una storia?”.

Imparare cosa sia ci dà tutti i presupposti per riuscire a crearne una. Riuscire a crearne una ci dà gli strumenti necessari per renderla esattamente come vogliamo. E in tutto questo percorso di progettazione e tempo impiegato, troverà certamente spazio la cura che ce ne siamo presi, eliminando di fatto tutta la sciatteria di un lavoro mal fatto. Che poi potrà (forse. Magari?) avere appeal su un editore specifico.

Però, c’è un trappolone: lavorare sodo non è sinonimo di riuscita, se non è ben incanalato.
Nessuno potrà mai dire che la bella villa costruita sul terreno cavo non sia costata un sacco di fatica ai muratori. Nessuno potrà mai dire che hanno lavorato risparmiandosi perché non ci tenevano.
Ma possiamo davvero dire che il progetto scelto fosse quello giusto?
Possiamo davvero dire che quelle energie non siano state in qualche modo “sprecate”?

Io la risposta non ce l’ho. Ma preferisco scegliere un percorso coeso, per me. Stabile sotto i miei piedi. E se devo faticare, voglio farlo nella direzione giusta, impiegando le mie forze perché mi portino avanti e non a girare su me stessa.

Mi piacerebbe che potessero farlo tutti.
Quindi, tornando alle cose serie; che cos’è una storia?

Te lo spiego qui.

#DallaCoffaConFurore

#UnProcioneAlGiorno…

#Storia   #FormaOSostanza

#Talento

 

© Redazione Coffa ~ Erika Sanciu. Tutti i diritti riservati.

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2 Commenti

  • Anonimo

    “Lo stomaco, irrequieto e vuoto, del vecchio procione affamato reclamava il suo cibo.”

    Molto brutto per una scrittura in prosa, illeggibile a voce alta. Meglio: “Lo stomaco del vecchio procione affamato, irrequieto e vuoto, reclamava il suo cibo.”

    • redazionecoffa

      Ciao, per quanto non sia di tuo gradimento, se avessi scritto nell’altro modo non avrei potuto usarlo per l’esempio.

      Infatti, spostare “irrequieto e vuoto” dopo “affamato” avrebbe cambiato la connotazione, facendola passare da “relativa allo stomaco” a “relativa al procione”.

      E anche con le virgole messe nel modo in cui hai suggerito tu, il dubbio sull’appartenenza rimane.

      Resta il fatto che è un esempio fatto esclusivamente per spiegare un concetto. E chiaramente non è un esempio di virtuosismo nella prosa. Serve a esplicare non a pavoneggiarsi.

      Grazie comunque per aver commentato. È Sempre bello vedere che dall’altra parte c’è qualcuno che interagisce.
      Buona serata!

      (Immagino che il commento si riferisca al post sulla virgola… non a questo articolo.)

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