COERENZA,  DALLA COFFA CON FURORE,  DETTAGLI E INFORMAZIONI,  EDITING,  IMPARIAMO INSIEME ~ TECNICHE NARRATIVE,  NARRATORE E NARRAZIONE,  PERSONAGGI,  PUNTO DI VISTA,  SCRIVERE MEGLIO,  UN PROCIONE AL GIORNO

LINE EDITING: UNA DIMOSTRAZIONE DEL LAVORO FRA AUTORE E EDITOR

Di nuovo, la prima versione del prologo de La singolarità dell’asteroide binario de Gli amanti di Sisifo (versione ragazzi):

Jack

Jack guardò il portellone della camera d’equilibrio aprirsi, quel movimento, ora, gli sembrava di una lentezza estenuante.

Non ne attese l’apertura completa, vi si infilò di lato strisciando con la schiena sullo stipite.

«Al diavolo!» disse oltrepassando quella soglia.

Jack era convinto che lì fuori, da qualche parte, vi fossero risposte che stava cercando. Fece due passi in avanti trascinando le reti con quello che si era portato. Una sensazione di angoscia insistente lo avvolse. La sentiva ovunque, allo stesso modo del vuoto assoluto che c’era lì, intorno a lui.

Alle sue spalle il portellone si richiuse senza rumore. Se non fosse stato per il bip della sua tuta quel passo sarebbe stato silenzioso.

Non stava lasciando una ragazza, non ne aveva mai avuta una. Non stava lasciando un padre e una madre, non li aveva mai conosciuti. Stava lasciando delle persone che gli avevano voluto bene, ma tutto si apriva e si chiudeva in quel semplice contesto. E a lui, quello, non bastava più.

Jack deglutì quella sensazione di sbagliato che aveva accompagnato ognuno dei suoi tentativi di fuga, prese le due reti piene di roba che aveva con sé e le spinse sulla chiglia di quella vecchia nave. Titans, gli sembrava si chiamasse. Aveva poco tempo prima che gli operai iniziassero a lavorare e che il vecchio Ferdinad si occupasse della manutenzione di quella nave. Doveva fare in fretta, questa volta doveva riuscirci.

Jack avanzò agganciandosi con gli stivali magnetici allo scafo, dirigendosi, spedito, verso il portellone di manutenzione che aveva individuato. Si guardò intorno, le luci della base iniziavano ad accendersi, le gru esterne a muoversi. Sullo scafo dell’astronave ancorata all’hangar vicino, lo scintillio di una saldatrice stava a indicare che i lavori erano già iniziati. Alzò la testa. Sopra di lui la Terra si muoveva lenta, mostrando il continente africano ancora parzialmente avvolto nel buio. Sotto di lui, oltre il bordo della nave, scorgeva gli anelli abitativi della base che ruotavano. Lo stavano facendo ininterrottamente da oltre un secolo.

Arrivò davanti al portellone di manutenzione: quelle vecchie navi ne erano piene, ed era facile manometterli. All’equipaggio sarebbe sembrato un piccolo guasto momentaneo, il contatto casuale di un sensore difettoso, come tanti altri doveva averne quella vecchia astronave.

Jack si inginocchiò, prese la maniglia di apertura e iniziò a girarla. Osservò con attenzione la luce di segnalazione, appena si spense si fermò. Richiuse di qualche giro la maniglia fino a farla riaccendere. Prese la chiave universale, smontò l’alloggiamento del led e bypassò il segnale del sensore di chiusura del portellone: all’interno sarebbe sembrato tutto chiuso anche se quel portellone fosse stato aperto. Jack richiuse tutto e ricominciò a ruotare la maniglia. La luce si spense ma ora sapeva che per l’equipaggio la luce sarebbe risultata accesa. Aprì il portellone, guardò all’interno. Dava sull’intercapedine tra la chiglia e la parete interna della nave. Uno strato d’acciaio di quattro centimetri di spessore lo proteggeva dall’esterno, e una parete di metallo più sottile, ma con trenta centimetri di isolante, lo separava dall’interno: lì in mezzo sarebbe stato bene. Lanciò dentro le reti con i viveri e le bombole d’aria che avrebbe utilizzato per pressurizzare quello spazio appena la nave fosse partita, poi chiuse il portellone.

«Andate tutti al diavolo!» gridò dentro la sua tuta.

Ascoltò l’eco di quell’urlo rimbalzare nella sua mente, sperando che questo sciogliesse quell’angoscia che continuava a rimbombargli nelle budella.

Stai facendo la cosa giusta, si disse.

Ora doveva solo aspettare che quel rottame si mettesse in viaggio, questa volta non l’avrebbero beccato.

 

Versione finale dopo il line editing:

Jack

Jack si appiattì alla parete consumata dell’attracco di manutenzione undici e lanciò un’occhiata lungo il corridoio. Deserto. Come il resto del porto, alle cinque del mattino. «Andiamo, andiamo, andiamo!» Il portellone della camera d’equilibrio si stava aprendo verso l’interno con una lentezza estenuante. Prese un respiro carico d’impazienza; il profumo di menta dei nuovi filtri fece a cazzotti con l’odore acre di sudore.

«Al diavolo!» Appena ci fu lo spazio sufficiente, Jack tirò in dentro gli addominali, come se questo potesse farlo diventare più sottile nonostante la tuta in cui si era già chiuso, e vi si infilò di lato, strisciando con la schiena sullo stipite.

Fece due passi in avanti verso il centro della piccola camera, con gli stivali magnetici che si agganciavano al pavimento a ogni passo, e si trascinò dietro le due reti da trasporto a maglie strette che si era portato. La piastra magnetica che le ancorava al suolo grattò sul metallo. Dentro ci aveva messo viveri per tre giorni e due bombole d’ossigeno: gli sarebbero bastati fin dopo la partenza, e non aveva bisogno di altro. Diede una manata al grosso tasto rosso che comandava la chiusura del portellone e si spostò verso l’oblò che dava all’esterno, in attesa che terminasse il ciclo di depressurizzazione.

Eccola.

La sagoma nera dell’astronave occupava tutta la parte inferiore del suo campo visivo. La parte alta, invece, era governata dalla Terra che, avvolta nella sua sottile ed evanescente atmosfera, mostrava il continente africano ancora parzialmente immerso nel buio. Splendida. Ma in mezzo, però, c’erano le stelle. Ed era lì che avrebbe trovato conforto ai suoi dubbi; non certo rimanendo sulla Base Alta.

Aspettatemi, sto per volare da voi.

Il secondo portellone si aprì ancora più lentamente del primo. Jack uscì e si fermò un istante sulla passerella di manutenzione. Una sensazione di angoscia insistente gli riempì il ventre di un’urgenza, e di un timore, che gli tolse lucidità e lo lasciò avvolto in uno stato di confusione. Si guardò attorno come se stesse per piombargli addosso un meteorite. Sentiva quel senso di rischio e disagio ovunque, come se avesse sostanza, come se il vuoto che lo circondava ne fosse, in realtà, intriso.

Un bip della tuta lo avvisò che, alle sue spalle, la camera d’equilibrio si era richiusa nel totale silenzio; ma, dentro, Jack aveva un gran casino. Il suo respiro era affannoso, il suo cuore batteva all’impazzata e la sua mente era messa anche peggio: «Calmati, stai facendo la cosa giusta.»

Stava lasciando delle persone che gli avevano voluto bene, che lo avevano accudito amorevolmente, che lo avevano ascoltato quando aveva avuto bisogno di parlare, ma tutto si apriva e si chiudeva in quel semplice contesto. Non era arrabbiato, non sentiva nessun astio contro di loro, solo che ora, tutto quello che aveva lì, non gli bastava più.

Jack deglutì quella sensazione di sbagliato che aveva accompagnato ognuno dei suoi tentativi di fuga.

Prese le due reti e scese la scala a pioli che lo portò sulla chiglia della Titans. Conosceva alcuni degli operai che ci lavoravano: dalle informazioni che gli avevano dato sarebbe rimasta lì un altro giorno, per ripartire verso il sistema di Marte. Aveva poco tempo prima che iniziassero il carenaggio di quel vecchio cargo e che Ferdinand, a bordo del suo ragno, iniziasse a scandagliare il ferro meteorico di cui era fatto a caccia di micro-falle e detriti. Doveva fare in fretta.

Jack si assicurò che gli stivali si agganciassero alla chiglia e avanzò spedito verso il portellone di manutenzione che aveva individuato. Si guardò intorno. Oltre il bordo scuro della nave scorgeva gli anelli abitativi che ruotavano lenti, ininterrottamente, da oltre un secolo. Le luci della base iniziavano ad accendersi. Le gru esterne del cantiere portuale, a muoversi. Sullo scafo dell’astronave ancorata all’hangar vicino, lo scintillio di una saldatrice indicava che, lì, qualcuno era già al lavoro.

Arrivò davanti al boccaporto. L’osservò con attenzione.

Perfetto. È un vecchio modello, questo lo apro a occhi chiusi.

Doveva solo prestare attenzione ai sensori, all’equipaggio sarebbe dovuto sembrare un piccolo guasto momentaneo, il contatto casuale di un sensore difettoso, come tanti altri doveva averne un’astronave come quella.

In ginocchio, prese la chiave universale, smontò l’alloggiamento del led di segnalazione e bypassò l’impulso del sensore di chiusura del portellone: all’interno sarebbe sembrato sigillato anche se fosse stato spalancato. Jack riassemblò tutto e cominciò a ruotare la maniglia di apertura. La luce si spense ma sapeva che in plancia sarebbe risultata accesa. Aprì, e guardò all’interno. Dava sull’intercapedine tra la chiglia e la parete interna della nave. Uno strato d’acciaio di quattro centimetri di spessore lo proteggeva dall’esterno, e una parete di metallo più sottile, ma con trenta centimetri di isolante, lo separava dall’interno: lì in mezzo sarebbe stato bene. Lanciò dentro le reti e ci si barricò.

Andrà tutto bene, vedrai.

Jack accese le luci del casco e illuminò l’antro nel quale si era appena rinchiuso. Largo poco più di un metro, si allungava verso il basso per circa il triplo. Ai lati, due pareti portanti di ferro meteorico grezzo andavano a delimitare uno spazio ristretto. Escludendo il portellone che dava verso l’interno della nave, tutto gli ricordava l’armadio di zia Elen dove si nascondeva da bambino. Digitò sul monitor che aveva sull’avambraccio. Aveva ossigeno ed energia per altre dodici ore, poi si sarebbe attaccato a una delle due bombole che aveva con sé. Cercò con lo sguardo una presa di manutenzione dove ricaricare le batterie della tuta e si ancorò con un moschettone a un gancio di supporto, lasciandosi galleggiare leggero. Chiuse gli occhi: ora non gli restava che attendere.

La mente lo portò ancora da zia Elen, ma anche da Vasily, da zio Chan, o da un’altra delle persone che lo avevano accudito negli anni. Era un vero peccato che non lo avessero fatto partire prima di allora, che ogni volta avessero trovato una scusa per farlo restare, che ora si trovasse costretto a tentare la fuga di nuovo. Si ricordò delle due settimane che aveva passato nelle vasche di riciclo l’ultima volta che lo avevano beccato.

Aveva diciott’anni ormai, e un sacco di domande che cercavano risposta.

«Sì, Jack, andrà tutto bene.» Ascoltò l’eco di quelle parole rimbalzare nella sua mente, sperando che questo sciogliesse quell’angoscia che continuava a rimbombargli nelle budella.

Stai facendo la cosa giusta.

Ora doveva solo aspettare che quel rottame si mettesse in viaggio.

 

 

Allora.
Alcune considerazioni personali:

L’EDITING è un lavoro lungo.

Non sarà mai una cosa marginale che vi porterà via cinque minuti di numero e “amen, la messa è finita, andate in pace, pubblico subito”. Giusto perché lo sappiate: preparatevi a lunghe e sacrosante sessioni di spremitura di meningi.
Avete visto quante versioni ci siamo scambiati prima di arrivare a quella definitiva? Ecco.

(E io ho condensato i suoi interventi insieme ai miei, per non mandarvi troppi rimbalzi.)

Quindi, per farlo su un intero libro richiede tempo, concentrazione, sensibilità. Da entrambe le parti.

E questo significa che non va preso alla leggera, e non va presa alla leggera nemmeno la persona che vi farà da editor, perché dal canto suo metterà tutta la sua competenza (in teoria) a vostra disposizione, per far sì che il vostro testo esca nella migliore versione possibile. Per voi. Non per sé stesso. Perché il nome sulla copertina sarà il vostro. E auspicherà per VOI che vendiate milioni di copie.

Certo, non lo farà in maniera gratuita.

Ma è proprio per questo che dovrete trovare la persona giusta a cui affidarvi.

Perché richiederà anche una dose massiccia di fiducia, e un feeling comunicativo con voi e con ciò che avete scritto.

Oltre alla vostra imprescindibile voglia di mettervi in gioco (che è un aspetto che non si può sottovalutare), e che ognuno di voi dovrà trovare dentro di sé.
Perché, in quella fase, il vostro cervello sarà il vostro peggiore nemico/alleato e cercherà di proteggere ciò che avete scritto, sussurrandovi che va benissimo così.

E in parte potrebbe anche avere ragione, ma dovrete comunque dubitare che sia così, se vorrete avere la possibilità di migliorare il vostro lavoro, perché sia apprezzabile, emozionante e comunicativo per la maggior parte delle persone che lo fruiranno.

Facciamo il punto di quello che comporta in pratica:

  • L’editor NON riscrive pressoché nulla.

Io non ho toccato il brano direttamente, ma ho soprattutto scritto dei commenti volti a far comprendere le trappole e le insidie che erano contenute nel testo. Ho dato indicazioni su COSA non tornava e PERCHÉ. Certo, ho suggerito dei cambiamenti e delle soluzioni, che possono variare dallo spostare pezzi e frasi più avanti o più indietro in parti più adeguate, al trovare termini più funzionali. Ma è stato l’autore a mettere mano, di proprio pugno.
In più, le correzioni apportate da me erano tutte motivate e impostate in modalità REVISIONE, quindi accettabili o meno dall’autore. In base al suo criterio valutativo al riguardo.

Quindi il secondo punto è:

  • L’autore interagisce direttamente.

Dice la sua: ne ha il DIRITTO e il DOVERE. Spiega il motivo della correzione che ha apportato, spiega cosa vorrebbe ottenere e via dicendo… insomma i commenti sono utili per confrontarsi apertamente con la persona che li inserisce. E anche per questo deve esserci un rapporto di fiducia marcato fra le due figure che collaborano.

Va da sé che la migliorabilità di un brano è legata a filo doppio anche alla volontà dell’autore di migliorarlo. L’editing non è una bacchetta magica di per sé. L’autore dovrà trovare il coraggio di mettersi in gioco, nonostante possa essere spaventato dall’evenienza del cambiamento. E nonostante possa vivere con sconforto gli appunti dell’editor.

È per questo che è importante ricordare che l’editor è al SERVIZIO della storia. Non ha POTERE su di essa e nemmeno sull’autore. Non è lì per imporre una sudditanza.

Anzi. Un buon editor, spiegando la logica che c’è dietro a ogni considerazione e appunto, lavora direttamente sulla percezione dell’autore. Gli fornisce degli strumenti del “mestiere” che potrà applicare in situazioni analoghe anche in altre parti del testo, o in altre storie che scriverà successivamente.

  • Il lavoro sul testo è una conseguenza diretta del lavoro sull’autore.

Ed è per questo che anche l’autore dovrebbe capire la “lingua” che l’editor parla e non dovrebbe essere a digiuno dei concetti a cui l’editor fa riferimento. Più l’autore ne sa, più il loro confronto diventa equilibrato e più si può andare in profondità sulle intenzioni del testo.

Infatti, la cosa successiva è:

  • L’editing è un lavoro che viene fatto per gradi.

Si va dal macro per arrivare al micro.

E questo in tutto: se si lavora su un’intera storia si partirà col comprendere la STRUTTURA che la regge, la sua architettura, il suo MONTAGGIO, per poi scendere sempre più nello specifico dei PERCHÉ che muovono i personaggi, la costruzione dei CAPITOLI e delle SCENE, la gestione dei CONFLITTI, gli ARCHI DI TRASFORMAZIONE, per poi arrivare successivamente a COME sono disposte le parole, alla VOCE dell’autore e alle sfumature. Non si tratta di ragionare solo sulla scorrevolezza e sul suono delle parole in bocca mentre si legge; o di spolverare la pagina. Se una pagina è piena di niente sarà inutile riordinare il vuoto che si finge sostanza.

E quindi anche invertire il processo non avrebbe senso. È controproducente andare dal micro al macro.

L’abbiamo già detto che è un lavoro lungo e approfondito? Ecco.

Quindi, un monito BONUS per voi: NON ESISTE L’EDITING LEGGERO SU UN TESTO.

Chi lo dice, mente. Chi ve lo offre, mente. E vi sta facendo – nella migliore delle ipotesi – una correzione di bozze camuffata.

(Tra l’altro: dopo l’EDITING, la CORREZIONE DI BOZZE vi servirà. Perché, dopo che hai letto per una miriade di volte lo stesso pezzo, gli errori non li vedi più. Il cervello li salta a piè pari per risparmiare tempo. E sarà necessario formattare il testo perché sia uniformato a un normario implicito o imposto dall’eventuale casa editrice.)

Quindi, se vi affidate a un editor che vi dice che vi fa risparmiare offrendovi un editing leggero del testo, fate molta attenzione. Perché tutto il prezzo conveniente che pagherete sarà inadeguato per un lavoro fatto bene, e potrebbe allontanarvi dall’avere accanto un professionista concreto che possa apportare un valore reale al vostro testo.

È chiaro che un LINE EDITING su un brano piccolo come questo non mi può dire come l’autore abbia gestito tutto il resto della storia.

Sarei sciocca anche solo a pensarlo.

Ma può essere molto utile per “scoprirsi” a vicenda. È per questo motivo che gli EDITOR freelance di solito vi offrono delle CARTELLE DI PROVA, che dovrebbero servirvi per valutare la qualità del lavoro che andrete a fare insieme.

Ve l’ho già detto che vi aiuterebbe molto non essere a digiuno della lingua che parla l’editor? Ecco.

Perché avere gli strumenti per valutare in modo paritario gli appunti che vi sta facendo, e il modo in cui si presentano le cartelle di prova, vi dà la possibilità ulteriore di scremare i cialtroni che si improvvisano editor. (E ce ne sono tanti. Ma tanti tanti. Credetemi.)

Comunque, anche in questo pezzo abbiamo lavorato per gradi. Abbiamo affrontato gli elementi prima in un’ottica per poi tornarci sopra valutando altri aspetti.

E questo è fisiologico e naturale.

Non vi chiederò quale dei due brani preferite e perché.

Non vi dirò che adesso il pezzo è perfetto. Perché io so che è ancora perfettibile, come lo sa l’autore. Perché si può sempre andare più a fondo. E perché non esiste nulla che sia perfetto. Mai.

Ma abbiamo raggiunto un grado in cui il brano era integrabile con il resto. È omogeneo con l’editing già fatto sul romanzo. Ed era quello il nostro obiettivo.

Invece, l’obiettivo di questo articolo era farvi capire cosa comporti un lavoro di LINE EDITING.

Farvi capire le dinamiche che stanno alla base e che strutturano una collaborazione sana e proficua per un autore.

E magari darvi degli input per poter scegliere con cognizione di causa a chi affidare l’editing del vostro romanzo.

  • L’editor dovrebbe farvi delle domande e dovrebbe darvi degli strumenti per farvi pensare.
  • L’editor dovrebbe essere attento e meticoloso. Molto. Dovrebbe proprio rompervi il cazzo su ogni cosa (se proprio vogliamo parlare in francese forbito).
  • L’editor dovrebbe comprendere la vostra voce e valorizzarla.
  • L’editor deve essere sincero. E onesto. Anche quando sa che vi farà male.
  • L’editor dovrebbe lavorare su di voi e, poi, sul testo. Perché lavorando solo sul testo voi non imparerete nulla e questo processo non vi farà crescere come autori.

Adesso, fate le considerazioni che preferite. E, se ne avete voglia, parliamone insieme.
Vi ascolto.

(Ringrazio ancora James F. L. Keeric per aver concesso la possibilità di scrivere questo articolo utilizzando il suo prologo, ma soprattutto perché non sono molti gli autori che hanno la capacità di mettersi in gioco, di ascoltare e riscrivere come ha fatto lui.)

#ImpariamoInsieme

#LineEditing #Editing #Editor

© Redazione Coffa ~ Erika Sanciu. Tutti i diritti riservati.

ISCRIVITI ALLA NOSTRA NEWSLETTER

Rimaniamo in contatto!
Ricevi in anticipo i nostri articoli e accedi ai contenuti esclusivi, dedicati e personalizzati di Redazione Coffa

Pagine: 1 2 3

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.