L’INVADENZA SFACCIATA DI CERTI NARRATORI
Questo articolo nasce da una specifica richiesta: capire quando il NARRATORE INVADENTE emerge in maniera sbagliata e vizia il PUNTO DI VISTA di un personaggio.
«Che significa? Il narratore ONNISCIENTE può fare quello che vuole e quindi può invadere quanto vuole.»
Mmmh… ni.
Ma delle libertà del narratore ne parliamo in un altro momento.
Oggi proviamo a capire che ONNISCIENZA e INVADENZA non sono la stessa cosa. Ma andiamo per gradi.
Allora, la prima cosa da comprendere e acquisire è che ONNISCIENZA e IMMERSIONE sono complementari, e inversamente proporzionali. Dove c’è più onniscienza ci sarà meno immersione e viceversa.
E questo è chiaro: scambio il potere illimitato del narratore con la possibilità di far emergere il mio personaggio. Quindi abbasso la sua postazione di osservazione e la posiziono il più possibile vicino al personaggio che sta osservando il mondo.
Ok.
In una narrazione ONNISCIENTE il narratore ha tantissime libertà.
Se è funzionale alla storia, può: impostare l’andamento a sua discrezione, scegliere cosa dire e come dirlo, commentare i fatti, commentare i pensieri, giudicare le scelte dei personaggi, giudicare quelle che potranno fare o non faranno mai, e può gestirsi le anticipazioni e le digressioni. Sa tutto. Vede tutto. E ha anche un ruolo fondamentale per appassionarsi alla storia, perché gestisce persino la distanza emotiva fra lettore e personaggi.
È, a tutti gli effetti, potenzialmente molto INVADENTE. E questo può piacerci, a patto che il suo carisma risulti parte integrante nella fruizione della storia. Così, ci affidiamo a lui per farci illustrare la storia.
Però, che succede nel momento in cui scelgo di NON volere un narratore onnisciente, per privilegiare il punto di vista dei personaggi?
Succede che, salvo casi motivati, i personaggi hanno un potere limitato rispetto all’onniscienza. Conoscono quello che vedono e sentono, sanno cosa provano, ma non sanno quello che sanno altri personaggi. Sono INAFFIDABILI in misura variabile, e più o meno consapevoli di esserlo.
Se il PUNTO DI VISTA sulla storia si stringe fino ad aderire su un personaggio, si comincia a parlare di PERSONAGGIO PUNTO DI VISTA e di FILTRO DEL PERSONAGGIO. Infatti acquisiremo la sua posizione (interna o di fianco a lui) e sarà il buco della serratura da cui vedremo la storia.
La sua visione, ovviamente, sarà influenzata dal suo modo di essere; e quindi filtrerà per noi quello che ritiene importante, sciocco, lodevole, disgustoso e via dicendo.
Ci darà un assaggio di cosa significa essere lui e respirare il mondo della storia in cui vive.
Se la narrazione è in prima persona, avremo molta più libertà di manovra. A patto che rispettiamo il confine cognitivo del nostro personaggio. Narratore e personaggio si fonderanno insieme e l’uno sarà la voce dell’altro.
La faccenda si complica un po’, invece, quando scegliamo di raccontare in terza persona; mettendoci di fianco al personaggio e creando un narratore che sbircia nella testa del personaggio e ci descrive come si muove.
«Perché si complica?»
Perché adesso dobbiamo mantenere l’illusione che il narratore sia al servizio del personaggio, e che gli sia subordinato. Il narratore deve fare un passo indietro e diventare quasi invisibile, perché, se tira troppo fuori il suo “carisma” e la sua presenza, rischia di oscurare il personaggio che voleva evidenziare.
Per questo, va tenuto a freno. Perché non vogliamo che si faccia prendere la mano e cominci a mettersi fra noi e i personaggi. Il nostro obiettivo è rimasto quello di immergerci nel personaggio, non nel narratore. Non ci interessano i suoi commenti sulle vicende, sui personaggi e sulle ambientazioni. Non abbiamo bisogno dei suoi giudizi. Quello che ci importa è percepire il FILTRO del nostro personaggio.
Se continuerà a intromettersi, invece, pur essendo depotenziato, risulterà INVADENTE. Perché il suo passo indietro sarà solo nominale ma non effettivo. Continuerà a punzecchiarci dicendo: “Ehi? Mi vedi? Sono qui! Hai sentito cosa ho detto del personaggio? Hai visto cosa penso di lui? E questo paesaggio? Capisci cosa mi suscita? No, no, no… non guardare lui, guarda me. Sono importante anche io! Ascoltami.”
Il NARRATORE INVADENTE soffre di un complesso di inferiorità. Crede di non essere efficace e che ci serva un rinforzo per comprendere ciò che ci sta narrando.
Dategli un paio di buffetti sulla testa e tranquillizzatelo. Ce la fate benissimo a capire anche senza i suoi sottotitoli. Siete dei lettori, non delle meduse sguisciose. ( Sì, lo so che non esiste come termine.)
Tra l’altro, sono rarissimi i casi in cui un narratore invadente evidenzia correttamente un personaggio, perché ci vuole una maestria superba nel mantenere la distanza emotiva giusta fra personaggio e lettore. Si rischia che il narratore sia troppo di parte e che “vizi” il giudizio del lettore sul personaggio. Ma questa è un’altra storia…
Quindi, anche se per un narratore onnisciente, in alcuni casi, può essere lecito invadere la narrazione, qui dobbiamo stare molto attenti perché non avvenga.
Per evitarlo, ci sono degli accorgimenti specifici. Perché ogni scelta presa comporta delle conseguenze. Esattamente come quando dai una spintarella a una tessera di domino che poi ne spingerà altre a sua volta, e via dicendo.
Ci siamo?
Per questo, ci avvarremo di un estratto fornito da un prode autore per fare un’analisi al riguardo. Vedremo come evitare che il punto di vista rimbalzi dal personaggio al narratore invadente e capiremo come comportarci perché il nostro narratore impari a stare al suo posto. Questo estratto è particolarmente utile in virtù del fatto che c’è principalmente un solo personaggio in scena. E quindi l’invadenza è più facile da sottolineare.
Shyril contemplava la propria immagine riflessa dallo specchio.
L’abito di seta nera le fasciava il corpo come una seconda pelle, esaltando la sua vita sottile e allargandosi in un’ampia gonna da cui affiorava solo la punta delle scarpette.
Bene.
Cascate di merletto filato d’argento scendevano sui polsi e adornavano la scollatura in modo da suggerire la curva del seno senza mostrarla.
Molto bene.
E poi c’era il viso. Il capolavoro, la sua arma più affilata. Il kajal in tinta con le sopracciglia esaltava il verde brillante dei suoi bellissimi occhi. Le labbra erano carnose, dipinte di un rosso tendente al viola che sembrava voler mettere subito in chiaro le cose. I capelli acconciati alla perfezione, lo chignon punteggiato di fermagli di oro bianco come quello che brillava attorno ai lobi delle sue orecchie.
Perfetto.
Qualcuno bussò alla porta.
«Lady Mandrast» disse una voce femminile dall’altro lato dell’anta. Shyril distolse lo sguardo dallo specchio. «Entra.»
Una giovane in livrea nera si affacciò sull’uscio, tenendo gli occhi incollati al pavimento. «Mia signora, siete stata annunciata al Consiglio.»
«Molto bene. Sarò pronta in un istante.»
Congedata la servitrice, Shyril esitò, frenata da uno strano senso d’incertezza. Finalmente era giunto il momento che attendeva da anni, eppure, ora che stava per viverlo, qualcosa dentro di lei sembrava essersi spezzato. È davvero questo ciò che vuoi?, si domandò portandosi una mano al petto. Sotto gli strati di merletto e seta il cuore le batteva all’impazzata, come se avesse appena terminato una lunga corsa. Stanchezza. Certo, non poteva essere che stanchezza. Ma anche eccitazione, al pensiero del potere che presto sarebbe fluito nelle sue vene. Tutto il potere della sua casata, solo per lei. Per sempre! A meno che…
Agitò un braccio, facendo tintinnare il braccialetto di oro e zaffiri attorno al polso. «Ma certo che lo voglio!»
La stanza rispose a quello sfogo con un silenzio indifferente. Shyril scosse la testa – non tanto da rovinare la sua acconciatura – e si mosse verso l’uscita. Come le era venuta in mente una simile sciocchezza proprio ora? Quel giovane non significava niente per lei, si erano incontrati giusto un paio di volte. Per di più non era neanche nobile, e la casata Mandrast non poteva legarsi a una famiglia di mercanti, per quanto ricchi.
Certo, lei aveva apprezzato la galanteria con cui le aveva offerto riparo dalla pioggia, quella sera a Darakethril. Così come il calore del suo corpo e la morbidezza dei suoi baci poco dopo, ma…
Un lieve rossore le imporporò le guance. Basta! Stai per diventare la Signora di Mandrast, si rimproverò. Certi sogni andavano bene per le lavandaie innamorate, non per un membro del Consiglio imperiale.
In ogni caso suo padre non le avrebbe mai permesso di frequentare Ruben. Nemmeno se lei avesse implorato allo sfinimento, neppure se avesse minacciato di togliersi la vita.
Ma suo padre avrebbe cessato di vivere quella notte.
Quel pensiero la colpì come uno schiaffo. Si portò una mano al petto. C’erano troppe cose a cui doveva pensare, troppe questioni di vitale importanza esigevano la sua attenzione, perché lei potesse lasciarsi distrarre dalla passione per un uomo. Ormai la partita era cominciata, ed era stata proprio lei a fare la prima mossa. Le cacciatrici erano posizionate sulla scacchiera, ora era giunto il momento di lanciarle dietro la loro preda.
Scacciando ogni pensiero dalla mente, Shyril scostò la porta e uscì dalla stanza, lasciandosi alle spalle un’intensa ondata di costoso profumo alla viola.
Ok. Ecco l’analisi per evidenziare la presenza del narratore INVADENTE.
Shyril contemplava la propria immagine riflessa dallo specchio.
Ok. La prima cosa che viene in mente riguardo a questa sentenza è che questa frase riassume tutto quello che, di fatto, avviene nella scena. E che quindi smorza moltissimo l’utilità della stessa, a meno che non rendiamo essenziale che lo faccia. Magari dandoci l’idea di chi sia il personaggio, mentre si “prepara” per il grande evento a cui deve presenziare.
Così il lettore non lo riterrà un riempitivo inutile nell’economia della storia.
Vorrei porre l’accento anche sul fatto che “contemplava” è un giudizio del narratore: è la sua interpretazione personale di ciò che Shyril sta facendo, e questo potrebbe essere un campanello d’allarme. Se vogliamo che il narratore ci permetta di mettere a fuoco Shyril, i suoi giudizi su di lei, e su cosa rappresentino i suoi atteggiamenti, dovrebbero essere ridotti al minimo.
Questa frase raddoppia ciò che viene detto dopo. E quindi, potrebbe tranquillamente essere soppressa o riformulata in modo da far emergere direttamente cosa il personaggio stia facendo. Se avremo evocato i particolari giusti, il lettore sarà perfettamente in grado di giudicare in autonomia che si stia “contemplando”. Se è quella l’idea che vogliamo passare.
Ultimo appunto: il rimirarsi allo specchio per far emergere i connotati di un personaggio è uno dei cliché più abusati. Motivo in più per renderlo “utile” a dirci qualcosa in più sul personaggio, se proprio vogliamo utilizzarlo.
Consideriamo anche che questo dovrebbe essere il prologo: quella scena, prima che inizi la storia vera e propria, che imposta il livello di attenzione del lettore. È il passo sull’uscio di casa, quello che ci fa decidere se entrare o meno, quindi, quello che si vede da qui, deve incuriosire parecchio.
L’abito di seta nera le fasciava il corpo come una seconda pelle, esaltando la sua vita sottile e allargandosi in un’ampia gonna da cui affiorava solo la punta delle scarpette.
Questa descrizione è statica. È un inventario di quello che il narratore vede – non Shiryl – perché lei magari avrebbe pensato a sé stessa in un modo meno vago e più specifico, aderente al suo modo di fare.
Il “sua” non serve. Non ci sono le vite di altri nello specchio. “vita sottile” è un giudizio del narratore, verrebbe da chiedersi: sottile rispetto a che canone?
“Ampia gonna” può voler dire tutto e niente e non ci dà un’idea chiara di come sia davvero fatta questa gonna. Magari poteva essere un particolare interessante da far emergere per farci capire in che contesto siamo.
Una gonna ampia nel 1800 in Francia, non è la stessa di una gonna ampia nel 1600, per dire.
“Punta delle scarpette”: che tipo di scarpette? Perché sono importanti tanto da dirlo? E perché, se sono importanti, sono trattate in modo così vago? Siamo proprio sicuri che Shyril non saprebbe definirle meglio, visto che sono sue?
Beh, probabilmente lo saprebbe fare. Per questo, questi piccoli particolari fanno emergere che il narratore sta cercando di passarci di nuovo il suo giudizio vago su Shyril. Per questo risulta invadente.
Per fare in modo che la descrizione non sia statica, prendiamo il particolare più peculiare e rendiamolo dinamico. Magari Shyril si passa proprio le mani sul corpo per valutare come il vestito le cade addosso. In questo modo possiamo approfittarci anche della sensazione tattile che le provoca farlo, e possiamo fare in modo che le mani indugino sulla vita. In quel modo, il commento che segue è una specifica valutazione personale sull’apparenza che vuole avere.
Bene.
Ottimo. Pensiero diretto del personaggio, fa una valutazione su sé stessa. Meglio se lo teniamo in corsivo per evidenziare che è proprio Shyril a pensarlo.
Cascate di merletto filato d’argento scendevano sui polsi e adornavano la scollatura in modo da suggerire la curva del seno senza mostrarla.
Anche questa parte può essere resa in modo dinamico, magari semplicemente facendo in modo che si sistemi con le mani la scollatura o il fondo delle maniche.
Si fa molta fatica a credere che il filtro del personaggio pensi a “cascate di merletto filato d’argento”, soprattutto in questi termini.
Magari, sarebbe stata un’occasione per farci dire da Shyril da dove viene quel merletto e se è pregiato. Per dire. Magari pensando che i soldi spesi per farselo recapitare da una città X sono stati certamente ben spesi. O che magari è proprio il colore che le esalta gli occhi, o i capelli, o entrambi. O che la sua amica-nemica morirà d’invidia quando la vedrà sfoggiarlo. Insomma, qualsiasi cosa che ci dica davvero CHI è lei e come si comporta.
Molto bene.
E poi c’era il viso. Il capolavoro, la sua arma più affilata. Il kajal in tinta con le sopracciglia esaltava il verde brillante dei suoi bellissimi occhi. Le labbra erano carnose, dipinte di un rosso tendente al viola che sembrava voler mettere subito in chiaro le cose. I capelli acconciati alla perfezione, lo chignon punteggiato di fermagli di oro bianco come quello che brillava attorno ai lobi delle sue orecchie.
Un’altra descrizione statica. E piena di giudizi del narratore. Perché solo lui può parlarne in quei termini. E questo, ancora, lo rende invadente. Se davvero fosse Shyril a ritenere il proprio viso un capolavoro, andrebbe impostato in maniera differente.
Facendo in modo da evocare la cura con cui si trucca: si passa il kajal in modo da evidenziare gli occhi, e si passa il rossetto per dare risalto alle labbra (magari vedendola anche scegliere il colore che ritiene più giusto al suo “fine”), avremmo definito l’importanza che lei dà alle proprie fattezze. A quel punto sì che sarebbe stata un’arma affilata. Magari proprio la più affilata che ha a disposizione.
“Bellissimi” è vago. Bellissimi rispetto a cosa? Bellissimi per chi?
Per il narratore. Purtroppo il giudizio è suo.
“Acconciati alla perfezione” non vuol dire niente. Non si capisce il MODO in cui sono acconciati davvero. Come per la gonna, poteva essere un particolare significativo per far emergere uno specifico contesto.
Perfetto.
Qualcuno bussò alla porta.
«Lady Mandrast» disse una voce femminile dall’altro lato dell’anta. Shyril distolse lo sguardo dallo specchio. «Entra.»
La parte evidenziata in blu ci fa presente che abbiamo perso l’occasione di trasformare il Dialogue Tag in un Beat.
Pensiamoci: la ragazza chiama Shyril attraverso la porta. Questo è giusto perché ci suggerisce il suo rango, ma significa anche che lo fa per un motivo: cioè per darle la possibilità di valutare se possa entrare o meno.
E questo significa che la porta non è molto spessa e che, nonostante la porta, è in grado di capire CHI sta parlando dall’altra parte.
Quindi, “una voce femminile” è di nuovo un giudizio del narratore che sceglie di dirci che è una voce qualsiasi. Se fosse stata Shyril ad avere le redini della situazione, avrebbe pensato alla ragazza in maniera specifica, non generica. Sa chi sia perché le accorda il permesso di aprire la porta. Anche solo se si fosse rivolta a lei pensando a “una delle ancelle” (o-qualunque-figura-ricopra-quel-tipo-di-ruolo nella storia), per dire. Perché magari ne ha tante al servizio, ma sa specificatamente che è una di loro. Non una voce femminile qualsiasi. Ma il narratore, che vuole prendere le distanze, crede che essendo meno specifico sarà meno invadente, invece assolve il compito opposto. Ci manifesta la sua presenza quando non dovrebbe.
Il testo deve andare a capo dopo “anta”. La frase successiva è un Beat e identifica l’attribuzione della battuta a Shyril. Meglio separare perché, in caso di Beat con azione dubbia (cioè facilmente attribuibile a entrambe) potrebbe generarsi una difficoltà di attribuzione della battuta.
Una giovane in livrea nera si affacciò sull’uscio, tenendo gli occhi incollati al pavimento. «Mia signora, siete stata annunciata al Consiglio.»
«Molto bene. Sarò pronta in un istante.»
“Una giovane in livrea nera”: ora dovrebbe essere chiaro perché è l’intromissione del narratore, di nuovo. Shyril non penserebbe a lei in maniera così generica. Questo è un pretesto per passarci il modo in cui è vestita, ma si potrebbe fare anche senza interpellare il narratore invadente.
Però, il fatto che tenga gli occhi sul pavimento ci dice qualcosa dell’atteggiamento che deve tenere, e ci dice anche che Shyril la sta ancora guardando, perché altrimenti non potrebbe vedere il modo in cui tiene gli occhi.
Congedata la servitrice, Shyril esitò, frenata da uno strano senso d’incertezza. Finalmente era giunto il momento che attendeva da anni, eppure, ora che stava per viverlo, qualcosa dentro di lei sembrava essersi spezzato.
“Congedata la servitrice” non serve: raddoppia solo qualcosa che è già esplicitato dalla battuta. Il lettore lo capisce. Se si vuole rafforzare il concetto, però, si può aggiungere uno sguardo persistente, un’occhiataccia di Shyril, un’attesa che renda palese che la presenza della servitrice non è più necessaria, o anche semplicemente dire che la guarda uscire o che richiude la porta.
Tra l’altro, che è opera del narratore invadente si capisce anche dal fatto che quella semplice frase imposta uno sfasamento temporale: ci dice che è trascorso un momento in cui la servitrice è stata congedata e quindi ci dà la certezza che il narratore sta gestendo l’ordine con cui gli eventi vengono presentati. Ci dice che le redini non le ha Shyril, ma qualcuno che la sta osservando e che sceglie quando imbavagliarla o no. E che decide anche cosa è giusto dire e in quale momento.
“Servitrice” in sé, però, potrebbe essere giusta, anche se la frase in quel contesto no. Potrebbe esserlo nel momento in cui Shyril ha molte servitrici diverse, di cui non conosce il nome (perché non le importa, perché non è necessario che lo sappia, o per mille altri motivi random). Se invece sapesse qual è il suo nome, be’, in quel caso sarebbe sbagliato.
“Esitò” è farina del sacco del narratore, non abbiamo alcun indizio che ci dica che Shyril lo stia facendo. Dobbiamo fidarci di lui e del suo giudizio, ma questo significa che dobbiamo scavalcare il personaggio.
“Strano senso d’incertezza” non può che essere una frase del narratore invadente, perché le informazioni sono troppo vaghe. Perché “strano”? Perché non ci è dato di capire perfettamente in cosa consista questo senso di incertezza? E poi, cosa dovremmo immaginarci pensando a un “senso di incertezza”?
Possiamo renderlo concreto? Possiamo evocarlo attraverso Shyril? Vale la pena di pensarci.
“Finalmente” per chi? In relazione a cosa? Che significa nello specifico? Anche qui, la parola è usata per generare un senso di attesa che però non perviene. Dovrebbe trasparire da lei. Non venirci indotto.
“Il momento che attendeva da anni”: quale momento? Shyril lo sa benissimo, visto che lo aspetta da anni. Allora qui emerge il narratore invadente che vuole volutamente tenerci all’oscuro di questa informazione per suscitare un qualche senso di mistero, magari per tenerci sulle spine. Ma non sarebbe meglio, visto che siamo sul POV (Point Of View) di Shyril, che fosse lei a trasudare questa smania di eccitazione? Che ci dimostrasse in qualche modo che non sta nella pelle e che vuole essere perfetta proprio per quello?
“Qualcosa dentro di lei sembrava essersi spezzato”: “qualcosa” e “sembrava” sono due zappe sui piedi mostruose. Le cose non sono mai “qualcosa di generico” o di indefinito: bisogna essere specifici. Il cervello non riesce a evocare un “qualcosa” perché non ha forma, non ha colore, non ha consistenza. E se non può essere evocato, si perde nella nebbia, perciò non serve a un granché.
Si era spezzata la sua convinzione? La sua determinazione? Cosa?
E poi, perché “sembrava”? A chi? Al narratore, non a lei. In genere, una cosa che sembra essersi spezzata presuppone che non lo sia, ma che lo appaia e basta. E allora che senso ha dire che sembra spezzata? Che finalità ha in questo contesto?
Bisogna stare molto attenti a usare termini incerti e indefiniti come questi, perché l’unica cosa che aggiungono è un senso di “incapacità comunicativa”, passatemi il termine. Nel senso di non riuscire ad attingere ai termini più corretti per riuscire a far emergere esattamente ciò che si voleva dire. Suona un po’ come una zappa sui piedi anche questa, vero? E in effetti è così. La scrittura dovrebbe essere più chiara possibile, perché un libro è un mezzo di comunicazione. Se comunico interferenze, il lettore riceverà solo quelle.
È davvero questo ciò che vuoi?, si domandò portandosi una mano al petto. Sotto gli strati di merletto e seta il cuore le batteva all’impazzata, come se avesse appena terminato una lunga corsa. Stanchezza. Certo, non poteva essere che stanchezza. Ma anche eccitazione, al pensiero del potere che presto sarebbe fluito nelle sue vene. Tutto il potere della sua casata, solo per lei. Per sempre! A meno che…
“È davvero questo ciò che vuoi?” è giusto. Lo è anche in relazione al fatto che lei è davanti allo specchio e che quindi potrebbe parlare con la parte più recalcitrante di sé stessa. Ha senso ed è credibile.
Ma perché “si domandò”? Il pensiero starebbe meglio in corsivo come gli altri che ho cambiato. E questo basterebbe a farci capire che lo sta pensando e che sta dialogando con il suo intimo.
“Si domandò” risulta doppiamente inutile: in primo luogo perché dopo un punto di domanda è implicito che sia stata posta una domanda, in secondo luogo perché evidenzia il narratore che vuole intromettersi fra noi e lei, smorzando il rapporto di empatia che stiamo costruendo.
È davvero questo ciò che vuoi? Si portò una mano al petto.
Si capisce perfettamente. Anzi, magari sarebbe proprio l’occasione giusta per far emerge il dettaglio del merletto o della scollatura, perché potrebbe stringerne l’orlo o seguirne il profilo con le dita. Descrizione dinamica, et voilà.
“Sotto lo strato di merletto e seta” non serve. Abbiamo già ricevuto questi particolari, perché reiterarli?
“All’impazzata” è un po’ trito e ritrito e, in questo contesto, anche inutile, perché dopo ci viene esattamente spiegato il MODO in cui il cuore le batte, ed è più che sufficiente. Anzi, avrei perfino alzato l’asticella un po’ per caratterizzare il luogo in cui siamo: “come se avesse corso per tutta la brughiera fino alle rive del Che-ne-so-io”, per dire. Sono particolari concreti, immaginabili e contribuiscono a darci un’idea dell’ambientazione in cui ci troviamo.
“Non poteva essere che stanchezza” : perché “poteva”? Se sta parlando con sé stessa è “può”. Altrimenti passa direttamente la palla al narratore invadente. Che ci dà la lezioncina su cosa Shyril prova, parlando per lei. Ma, visto che le è stata data la possibilità di esprimersi, perché dobbiamo mutilarla così? Manteniamo l’illusione del dibattito interiore; è sicuramente più interessante di delegare a un narratore che NON è onnisciente, il diritto di parlarci dal suo punto di vista dei pensieri di un personaggio che è in grado di farlo da solo.
“Sue vene”: vale quello detto appena sopra per “poteva”. Se è un pensiero di Shyril, le vene saranno “mie”.
E anche se fosse stato in altro modo, molti aggettivi possessivi possono essere tagliati, perché la maggior parte sono superflui e facilmente intuibili dal contesto.
“Solo per lei”: valgono le stesse cose dette prima, ma con “me”.
Tutto questo pezzo è molto più suggestivo se si amplifica la sensazione che il personaggio stia parlando con sé stesso, di sé stesso. E cancellerebbe completamente l’ombra del narratore invadente.
“A meno che…”: ci si possa credere o meno, intorno a queste tre parole ruota tutta l’intera scena. Perché evidenziano il conflitto del personaggio e impostano l’obiettivo. La mettono sulla soglia del dubbio e deve scegliere se fare un passo avanti o un passo indietro. Per questo, metterle in bocca al narratore invadente è uno sbaglio madornale.
Perché sostengo che è il narratore?
Perché è l’ennesimo modo vago per provare a tenere il lettore incollato alla pagina generando un presunto mistero da svelare.
Non è molto naturale che il personaggio pensi un generico “a meno che…”; avrebbe più senso uno specifico richiamo a COSA potrebbe indurla a fare diversamente.
Però, se avessimo costruito tutta l’intera scena davvero su questo piccolo nocciolo, avrebbe potuto prendere tutta un’altra piega, più dinamica e interessante.
Mi spiego: l’obiettivo è insinuare il dubbio in Shyril: da una parte il potere, dall’altra il tizio. Ok?
E noi la vediamo davanti a uno specchio, che potrebbe benissimo rappresentare il conflitto fra ciò che si è e ciò che si appare. In fin dei conti, anche il modo in cui si è vestita fa parte di una “maschera”, un camuffamento per reggere una parte. Tutto sta solo nel decidere quale parte vuole prendere. E il dibattito con sé stessa ne è la prova. Scelgo il potere e faccio valere ciò che posso diventare, o scelgo me stessa anche se vuol dire andare contro a tutti?
Ok, non siamo qui per giudicare cosa dovrebbe fare: lo sa lei. Ma il compito dell’autore è far emergere il meglio possibile questo conflitto in modo che sia MOTIVABILE E INTERESSANTE per il lettore. E in più mantenendo il più possibile il focus su Shyril.
Quindi, teniamo a mente: usare quell’”a meno che…” come conflitto centrale. Poi ci torniamo sopra alla fine dell’analisi.
Agitò un braccio, facendo tintinnare il braccialetto di oro e zaffiri attorno al polso. «Ma certo che lo voglio!»
Tralasciando il fatto che “agitò un braccio” è veramente molto vago e andrebbe rivisto in una chiave più precisa e specifica (visto che potrebbe dire veramente di tutto, dallo scacciare una mosca al segnalare la sua presenza a un aereo), “facendo tintinnare” smorza molto il suono del braccialetto, perché sposta il focus dal rumore che dovrebbe fare al chi ti fornisce l’informazione. I verbi al gerundio sono una bella arma, ma da usare con parsimonia: cioè solo nel momento in cui l’azione è realmente contemporanea a un’altra descritta.
In questo specifico caso “il braccialetto d’oro e zaffiri tintinnò” assolve lo stesso compito ed è consequenziale al movimento portato.
“Attorno al polso” non serve poi molto, a meno che non abbia braccialetti anche altrove. È un semplice riempitivo; questi caratteri potevano essere utilizzati per altro.
Però la battuta è corretta, e lo è anche il tono. Perché sta cercando di sopprimere qualcosa che dovrebbe essere un pensiero prepotente e vivido, talmente tanto da farle mettere in discussione il passo che sta per fare.
La stanza rispose a quello sfogo con un silenzio indifferente.
Forse avrei cambiato “stanza” con “specchio”, nell’ottica del discorso precedente. Però, siamo proprio sicuri che un silenzio normale sia diverso da uno “indifferente”? In cosa differisce?
In questo caso anche questa frase sarebbe imputabile al narratore perché adesso sta emettendo un giudizio sulla qualità del silenzio.
Invece, cambiando “stanza” con “specchio”, la faccenda sarebbe stata un tantino diversa. Perché a quel punto Shyril potrebbe davvero imputare la mancanza di risposta come un dispetto personale del suo riflesso. E avrebbe più senso, perché il suo interlocutore non è mai stata la stanza, ma solo lei e la sua figura che si specchia.
“A quello sfogo” è perfettamente inutile e fa emergere il narratore invadente. Il lettore è in grado di capire le intenzioni dei personaggi se vengono presentate adeguatamente. Non ha bisogno che vengano ribadire in continuazione. Questo fa emergere solo l’insicurezza dell’autore. Il bisogno di spiegarsi ulteriormente perché si ritiene di non essere stati abbastanza efficaci la prima volta.
Pensarci non guasta.
Shyril scosse la testa – non tanto da rovinare la sua acconciatura – e si mosse verso l’uscita. Come le era venuta in mente una simile sciocchezza proprio ora? Quel giovane non significava niente per lei, si erano incontrati giusto un paio di volte. Per di più non era neanche nobile, e la casata Mandrast non poteva legarsi a una famiglia di mercanti, per quanto ricchi.
Una delle regole per scovare il narratore invadente è: diffida di tutti gli incisi che stanno fra i trattini medi. Questo è semplice da capire: cos’è un inciso fra trattini? È un modo per scostarsi appena dalla narrazione per inserire qualcosa che tange la frase, ma non così tanto da avere il diritto di starci dentro.
Quindi, per quanto sia corretto a livello di costruzione, dà voce al narratore invadente, che si prende un attimo per dirci che l’azione di Shyril non inficia l’acconciatura (di cui non sappiamo niente), con l’intenzione di farci capire che lo scuotimento di testa è stato lieve. O che ha una lacca davvero potentissima.
Tutto sommato si poteva trovare un modo migliore per farlo. Sarebbe bastato uno “scosse appena la testa”, per eliminare il commento del narratore al riguardo.
A meno che il tipo di acconciatura non sia importante, o che lo sia il fatto di avere un aspetto impeccabile.
In questo caso, si poteva trovare il modo di dare più risalto alla “salute” di questa acconciatura mettendo in scena un espediente mirato. La servitrice le infila il vestito dalla testa e Shyril le intima di fare attenzione, per dire. La servitrice le infila con cura tutti i fermagli finché lei non è soddisfatta. O altro ancora.
Per “le era”, “per lei”, “si erano” il consiglio è quello di riformulare come un pensiero diretto invece che delegare la dissertazione al narratore. Acquisirebbe un carattere più intimo ed eliminerebbe l’aleggiare del giudizio esterno del narratore sulla vicenda. Infatti il narratore sbrodola anche su “quel ragazzo”, generalizzando l’entità di qualcuno di cui Shyril conosce perfettamente il nome, visto che lo dice poco dopo: Ruben.
Se fosse davvero lei il punto di vista, avrebbe bisogno di appellarlo in maniera così vaga?
Probabilmente no. A meno che venga utilizzato in modo dispregiativo, per sminuirne l’importanza ai suoi stessi occhi. Ma a quel punto “ragazzo” non è un termine calzante. Bisognerebbe utilizzare qualcosa di offensivo in un modo specifico, per darci l’idea di cosa si penta Shyril di preciso.
Riformuliamo così:
“Come mi è venuta in mente una simile sciocchezza proprio ora? Ruben non significa niente.”
Capite la differenza?
“Come le era venuta in mente una simile sciocchezza proprio ora? Quel giovane non significava niente per lei.”
Hanno proprio due provenienze diverse.
Tutto questo: “si erano incontrati giusto un paio di volte. Per di più non era neanche nobile”, lo inserirei modificato solo se dovesse rafforzare il senso di straniamento che lei vuole imporsi. Ma solo se il pensiero di Ruben, nella scena, diventa davvero persistente da giustificare una scelta così netta e “ridondante”.
“Come mi è venuta in mente una simile sciocchezza proprio ora? Ruben non significa niente. Non è neanche nobile. E ci siamo incontrati giusto un paio di volte.”
Non è ancora naturale come dovrebbe, ma acquisisce di più un sentore di flusso di coscienza. Calcare con il corsivo il “niente” (o viceversa col tondo visto che i pensieri li abbiamo dati in corsivo), rimarca ciò che lei dovrebbe pensare di lui. E le giustificazioni ragionevoli e plausibili che seguono servono a farle fare dei passi indietro “morali”. Accentuando le pause con i punti e invertendo le frasi (prima c’è una motivazione sociale che deriva dall’educazione che ha ricevuto, quindi più valida “sulla carta”, e poi una emotiva come per redarguirsi dal non essere irrazionale) si crea un filo di pensieri più coerente che ci suggerisce anche qualcosa sull’educazione che le hanno impartito e il modo in cui è cresciuta, senza doverlo esplicitare direttamente.
Aggiungo anche che “giusto un paio di volte” è sempre comunque molto vago, e che eviterei proprio di usarlo. Ma era per fare un esempio che chiarisse il ragionamento.
Anche perché, tutto ciò che rimarrebbe della frase che segue, cioè “la casata Mandrast non poteva legarsi a una famiglia di mercanti, per quanto ricchi”, è INFODUMP. Sono informazioni che il narratore passa direttamente al lettore senza che al personaggio siano utili in alcun modo. Lo bypassa. E, di fatto, questo fa emergere la sua invadenza.
Infatti non è naturale che lo pensi lei; come non è naturale che lo spiattelli il narratore invadente.
A meno che, visto che è il padre di Shyril a osteggiare l’eventuale rapporto, questa frase non venga proposta come un modo per “scimmiottare” le sue parole. Quindi andrebbe reimpostata e reinserita adeguatamente nel corso della narrazione, perché risulti in quel modo.
Certo, lei aveva apprezzato la galanteria con cui le aveva offerto riparo dalla pioggia, quella sera a Darakethril. Così come il calore del suo corpo e la morbidezza dei suoi baci poco dopo, ma…
L’infodump continua perpetrato dal narratore. Che ci tiene anche a sospendere di nuovo la frase con un “ma…” che ha il solo scopo di “non svelare”; non quello di incuriosire.
Perché, a volte, si incuriosisce di più dicendo le cose mirate, piuttosto che tacendole a casaccio.
Però questo pezzo teniamolo a mente, come vi ho chiesto di fare prima, perché potrebbe tornarci utile.
Un lieve rossore le imporporò le guance. Basta! Stai per diventare la Signora di Mandrast, si rimproverò. Certi sogni andavano bene per le lavandaie innamorate, non per un membro del Consiglio imperiale.
“Si rimproverò”: abbiamo visto che è inutile e anche dannoso ai fini del mantenimento del punto di vista, perché abbina un pensiero diretto con un commento indiretto.
Si capisce dal tono che è un rimprovero a sé stessa. Non sottovalutate il significato e l’intenzione delle parole che mettere in campo: il lettore capisce; non è stupido. Non trattatelo come se lo fosse.
“Certi sogni andavano bene per le lavandaie innamorate”: e questo chi lo pensa? Messa così lo pensa il narratore, perché Shyril lo penserebbe in termini diversi:
“Certi sogni VANNO bene per le lavandaie innamorate”, eventualmente.
Ma serve davvero?
Serve solo nel momento in cui Shyril vuole imporre il suo rango a sé stessa. Ma, senza un cambiamento che lo giustifichi, è un po’ eccessivo.
L’ultima parte della frase, poi, non ci fa intendere chiaramente se Shyril fa già parte del Consiglio o se aspiri a farne parte. In base a ciò che dovrebbe assolvere, andrebbe modificata.
In ogni caso suo padre non le avrebbe mai permesso di frequentare Ruben. Nemmeno se lei avesse implorato allo sfinimento, neppure se avesse minacciato di togliersi la vita.
“In ogni caso” è un commento esterno ed è rafforzato dal fatto che se fosse farina del sacco di Shyril si riferirebbe al padre indicandolo come “mio”. Qui è proprio palese che qualcun altro sta parlando di lei, come se non potesse essere sentito tranne che dal lettore.
Ma suo padre avrebbe cessato di vivere quella notte.
Anticipazione o minaccia?
Nel primo caso, male. Perché il nostro narratore non è onnisciente e quindi non può conoscere il futuro. E serve solo a cercare di imporre di nuovo il mistero e a farci percepire la sua invadenza giudicativa.
Nel secondo caso, andrebbe reso più personale. E gli esempi fatti credo che siano già esplicativi di come poterlo fare.
Quel pensiero la colpì come uno schiaffo.
Ah sì? Strano. Eppure sembra che non abbia una buona opinione di lui.
Se invece ne ha, qualquadra non cosa. O forse la reazione descritta calca troppo la mano sulla reazione, dando un’idea distorta rispetto a quella che dovrebbe passare.
Si portò una mano al petto. C’erano troppe cose a cui doveva pensare, troppe questioni di vitale importanza esigevano la sua attenzione, perché lei potesse lasciarsi distrarre dalla passione per un uomo. Ormai la partita era cominciata, ed era stata proprio lei a fare la prima mossa. Le cacciatrici erano posizionate sulla scacchiera, ora era giunto il momento di lanciarle dietro la loro preda.
“Si portò una mano al petto”: è la seconda volta che lo fa in questa scena. Se è una ripetizione, ne andrebbe tolta una. Se è un gesto peculiare di Shyril, andrebbe evidenziato e valorizzato meglio.
“Troppe cose”, quali?
“Troppe questioni di vitali importanza”, tipo quali?
Le informazioni vaghe sono appannaggio del narratore invadente. Il personaggio che conosce gli eventi ne parla in modo specifico, che non vuol dire infodumposo, ma vuol dire “con cognizione di causa”.
“Lei potesse lasciarsi distrarre”: questo è un giudizio del narratore. È lui che decreta che il pensiero di Ruben la distrae. Se fosse stato davvero così, avremmo dovuto vedere davvero questa distrazione in modo tangibile. Invece abbiamo visto lui pontificare in lungo e in largo su questa cosa.
“Un uomo” è la ciliegina sulla torta. L’ulteriore conferma che il narratore si mette nel mezzo con le sue generalizzazioni. Vale anche per la frase: “Ormai la partita era cominciata, ed era stata proprio lei a fare la prima mossa.”
Un po’ perché passa il concetto di prima che voglia anticipare/fare il misterioso senza alcuna necessità funzionale. Cosa dovremmo immaginarci di preciso? Non lo sappiamo. E se non ne abbiamo idea, perché dovrebbe incuriosirci?
Già. Perché? Boh.
Un po’ perché attinge a tutta una serie di connessioni logiche mentali che potrebbero non fare parte della realtà di Shyril.
Andrebbe capito il concetto di “partita a un gioco”, andrebbe capito quale, e andrebbe capito anche cosa comporti l’idea di “mossa”.
Questa frase fa appello a un’IRONIA DRAMMATICA che non è propria di Shyril ma lo è solo del lettore, perché si riferisce al gioco degli scacchi. Allora perché dovrebbe essere spacciato come pensiero del personaggio, invece che del narratore invadente?
Non dovrebbe, infatti. Serve solo a farci capire che è un altro passaggio da decapitare, se vogliamo rimanere aderenti al PUNTO DI VISTA di Shyril.
Scacciando ogni pensiero dalla mente, Shyril scostò la porta e uscì dalla stanza, lasciandosi alle spalle un’intensa ondata di costoso profumo alla viola.
Si possono accorpare i due gerundi, in modo che ne rimanga solo uno e alleggerisca il periodo dalla presenza del narratore, che imposta le tempistiche delle azioni di Shyril invece di lasciarla libera di farle emergere da sola.
“Shyril scostò la porta e uscì, lasciandosi i pensieri alle spalle nell’ondata di profumo alla viola.” Per dire.
“Dalla stanza” non serve. Sappiamo che è lì dentro e che è stata chiamata altrove.
“Un’intensa” e “costoso” sono aggettivi che servono al narratore invadente per rafforzare qualcosa che pensa di non aver fatto comprendere bene. Ma già “ondata” dà l’idea di qualcosa di corposo e persistente, o comunque, di travolgente.
Per quello che riguarda il “costoso” serve solo a ribadire il suo rango e ciò che può permettersi, ma poteva avere un ruolo più dinamico questo profumo. Anche perché, l’olfatto non è mai stato stimolato in questo estratto, e non abbiamo visto Shyril mettersi il profumo. Questo significa che il sentore del profumo arriva in ritardo rispetto alla scena. Perché ci siamo immaginati una scena priva di odore che adesso, di botto, si riempie di qualcosa che non è mai stato minimamente menzionato.
Faccio un po’ di considerazioni finali e provo a fornire un’alternativa. Questa scena, per come è concepita, è sbilanciata: non succede niente e viene trattata dal narratore come se invece succedesse qualcosa di importante.
Il mio consiglio sarebbe di ripensarla in questa veste:
- Dare più dinamismo alla preparazione di Shyril: in questo modo ogni elemento che lei indossa acquisisce un significato più marcato ed emerge quanto lei tenga alla composizione del suo costume. E in più eliminiamo il brutto cliché del guardarsi allo specchio per dare i connotati del personaggio.
- Mettere Shyril più in difficoltà, in modo concreto: ad ogni passaggio della vestizione darle modo di far vagare la mente in piccoli sprazzi che le ricordano Ruben. Che ne so, il vestito che le scivola sulla pelle che sfuma nelle mani di lui che la toccano. Il mettersi il rossetto sulle labbra che le ricorda i suoi baci. La servitrice che le acconcia il capelli e lui invece che glieli scioglie, e via dicendo. E ogni volta dovrebbe vedersi che Shyril si riporta sulla retta via mentalmente. Che cerca di focalizzare sul presente e che si bacchetta con ciò che il suo retaggio e la sua educazione le impongono.
Così, il dubbio insinuato diventa corposo e concreto, e il lettore ha davvero qualcosa su cui pensare. E magari potrebbe cominciare a interessarsi a ciò che potrebbe succedere all’evento in cui Shyril è attesa. Sceglierà il potere? In quale modo questo sarà attinente alla storia che verrà?
Altro appunto: di persone che non possono stare insieme per paturnie della famiglia è piena la narrativa, da Aladdin a Romeo e Giulietta, passando per Lilli e il Vagabondo e molti altri ancora.
Se non abbiamo qualcosa di specifico a cui fare appello per affezionarci, saremo portati a catalogare con: “Ok, ho già visto ‘sta cosa. Niente di nuovo”.
Quindi, tocca pensarci bene e caratterizzare al meglio.
#ImpariamoInsieme
#CodiciDiLancio
#NarratoreInvadente #NarratoreOnnisciente
#PuntoDiVista #FiltroDelPersonaggio
© Redazione Coffa ~ Erika Sanciu. Tutti i diritti riservati.