EMPATIA,  IMPARIAMO INSIEME ~ TECNICHE NARRATIVE,  IRONIA DRAMMATICA,  MISTERO, CONFUSIONE E MISTIFICAZIONE,  NARRATORE ATTENDIBILE,  NARRATORE INAFFIDABILE,  NON-RECENSIONI,  PRIMA PERSONA,  PUNTO DI VISTA

UN SOTTILE GIOCO DI PRESTIGIO

APPROFONDIMENTO DI “CUORE A RAZZO FARFALLE NELLO STOMACO”

Cosa nasconde davvero la trama di questa storia?

Questa storia parla di accettazione e innamoramento adolescenziale, di quella transizione che, attraverso il primo amore, trasporta dall’infanzia all’affermazione della propria individualità e identità. Anche sessuale.
Questa storia parla di fluidità di genere.

E il grande ribaltamento a cui andiamo incontro è che Rob non è il diminutivo di Robert, ma di Roberta.

«E com’è possibile che non ce ne rendiamo conto per tutto il libro?»

Per buona parte è dovuto al fatto che la storia è narrata in prima persona.
Infatti, il narratore si rivolge a sé stesso con un generico “Io”, che di fatto non veicola alcun genere, mentre gli altri gli si rivolgono con un altrettanto unisex “Tu”, che contribuisce a mantenere l’illusione che Rob sia un maschio. Anche se questa cosa non viene MAI affermata apertamente.

Un narratore in terza persona avrebbe rovinato questa illusione, perché avrebbe dovuto appellarsi a Rob scegliendo un “lui” o una “lei”. Dandogli di fatto un’identità di genere specifica.
È anche vero che la nostra lingua, a differenza di quella inglese, ha aggettivi che concordano con il genere del nome a cui sono legati, mentre in inglese questo non avviene.
Quindi, per forza di cose, nella traduzione Rob diventa “stancO”, “solO”, “divertitO” e via dicendo. Quando nella versione originale tutto questo non avviene, e concorre a generare la neutralità finché non siamo noi stessi a dover cambiare mentalmente dal maschile al femminile, e viceversa.

L’autore fa leva sul nostro “pregiudizio cognitivo” e mantiene questa illusione fornendoci alcune suggestioni specifiche che tendono a sfruttare il dualismo di alcune frasi, o di alcuni atteggiamenti degli altri personaggi.
E lo fa in maniera graduale, sempre più a fondo, man mano che prendiamo confidenza con Rob e che rafforziamo la nostra idea sulla sua identità.
Facciamo degli esempi:

MY NAME IS…

Nel primo capitolo l’autore ci dà la possibilità di capire chi sia Rob, semplicemente mettendolo in condizione di presentarsi.
Questa presentazione sarà utile a introdurre il suo nome completo, ma anche il modo in cui si relaziona ipoteticamente con gli altri, perché imposta una scala relazionale con il lettore che noi assimiliamo possa allacciare anche con le persone che lo circondano.

Vediamo l’estratto:

Because I’m in the top English class at school, I attended a writing workshop at a local literary festival a few months back. It was run by a well-known writer for young adults and children. I got a signed novel and I also learned something about the techniques of writing a book (which this is). She went on quite a bit about establishing a narrative voice. I’ve been thinking long and hard about it.
Hi! My name is Rob C. Fitzgerald (don’t ask what the C stands for – I’m not telling you on the grounds that it’s hideous and embarrassing) and I’m thirteen years old.
Then I remembered what the author had said about tone. I looked at the word
‘Hi!’ on the page. It struck me as way too conversational and informal. I hit the backspace button.
My name is Rob C. Fitzgerald (don’t ask what the C stands for – I’m not telling you on the grounds that it’s hideous and embarrassing) and I’m thirteen years old.
I put my head in my hands. Think. Be critical. Are the brackets and the words in them necessary? If I’m not going to say what the C stands for (and trust me, I’m not), then why mention it? A tip the writer gave came back to me: the delete key is your best friend.
My name is Rob Fitzgerald and I’m thirteen years old.
Yuck. Ugly. Keep it simpler still.
I’m Rob Fitzgerald and I’m thirteen years old.
Two ‘I’m’s in the same sentence. That’s a basic mistake.
I’m Rob and thirteen.
Perfect. If I’m actually determined to be boring. Look, maybe it’s best if we pretend this first chapter doesn’t exist. If I don’t get any better as a writer, you have permission to come round to my house, tie me to a chair and have at my toes with a blowtorch.Which is way better than getting your money back if you’re not entirely satisfied.

Visto che a scuola sono all’ultimo anno del corso di letteratura, qualche mese fa ho seguito un seminario di scrittura creativa a un festival locale. Lo teneva una famosa autrice per bambini e ragazzi. Ne ho ricavato il suo romanzo firmato e ho anche imparato qualcosa su come si scrive un libro (che poi sarebbe questo). La scrittrice ha insistito su quanto sia importante trovare la propria voce narrativa. Ci ho pensato sopra parecchio.
Ciao! Mi chiamo Rob C. Fitzgerald (non chiedetemi cosa vuol dire la “C” perché tanto non ve lo dico, visto che è orribile e imbarazzante) e sono un tredicenne.
Poi mi sono ricordato cosa diceva la scrittrice sul tono. Ho fissato la parola “Ciao!” e mi è sembrata decisamente troppo colloquiale e informale. Ho premuto il tasto CANC.
Mi chiamo Rob C. Fitzgerald (non chiedetemi cosa vuol dire la “C” perché tanto non ve lo dico, visto che è orribile e imbarazzante) e sono un tredicenne.
Mi sono preso la testa tra le mani. Pensa. Sii critico. Le parentesi e le parole che contengono sono necessarie? Se tanto non voglio rivelare cosa significa la “C” (e credetemi, non voglio proprio) allora perché menzionarla? Mi è tornato in mente un consiglio della scrittrice: il tasto per cancellare è il vostro migliore amico.
Mi chiamo Rob Fitzgerald e sono un tredicenne .
Bleah. Terribile. Semplifica ancora.
Sono Rob Fitzgerald e sono un tredicenne.
Due “sono” nella stessa frase. Un errore classico.
Sono Rob, ho tredici anni.
Perfetto, se voglio essere di una noia mortale.
Sentite, forse è meglio se facciamo finta che questo primo capitolo non esista. Se non miglioro come scrittore, avete il diritto di venire a casa mia, legarmi a una sedia e tenermi una fiamma ossidrica vicino ai piedi. Cosa che, se non siete del tutto soddisfatti, è molto meglio di riavere indietro i soldi.

Spoilerone: la “C” sta per Catherine.

Ma questo si scopre solo alla fine del libro quando viene menzionato il suo nome per intero. A quel punto, si accende una lampadina nel lettore che pensa: “Aaaaaah! Ecco perché non voleva dirlo!”.

Però il punto è un altro. Riprendo la frase così la leggete meglio.

Hi! My name is Rob C. Fitzgerald (don’t ask what the C stands for – I’m not telling you on the grounds that it’s hideous and embarrassing) and I’m thirteen years old.

Ciao! Mi chiamo Rob C. Fitzgerald (non chiedetemi cosa vuol dire la “C” perché tanto non ve lo dico, visto che è orribile e imbarazzante) e sono un tredicenne.

Con quel “non chiedetemi cosa vuol dire perché tanto non ve lo dico, è orribile e imbarazzante” l’autore, di fatto, ci mette sotto al naso immediatamente la SUA verità (di Rob).
Per Rob quella C è davvero orribile e imbarazzate. Perché definisce inequivocabilmente che è nato femmina.
Però, messo in quello specifico contesto, il fatto che sia “orribile e imbarazzante” potrebbe derivare da altro. Magari dal fatto che i suoi genitori gli hanno dato un nome assurdo, per un qualsiasi X-motivo. E potremmo anche crederci, perché li abbiamo visti nel prologo, in una colazione tipo, nient’affatto seriosa.

Ovviamente, “I’m thirteen years old” è scevro dal genere, mentre “sono UN tredicenne” già affievolisce molto l’illusione della non-definizione che ricercava l’autore.

Ma vabbè, abbiamo detto che è inevitabile per noi, e quindi prendiamo ciò che viene. Perché, comunque, visto che Rob si sente un maschio, è giusto che nella traduzione abbiano virato a quella declinazione.
Quello che ci portiamo davvero dietro da questa presentazione di Rob è il suo modo di comportarsi. Il modo in cui emerge dalle pagine, ragionando su quale sia il modo migliore per farci capire chi è. Perché ci tiene molto a farci capire come si chiami.
Sono Rob Fitzgerald, ho tredici anni. Lo ripete cinque volte.
E il nostro cervello registra. Rob “C” (ma è imbarazzante), Rob “–”, Rob, Rob, Rob.

Ok, abbiamo capito: Rob ha tredici anni ed è pure simpaticO.
Perché per noi si rafforza automaticamente il concetto che sia un maschio.
Il nome non sembra ambiguo e andiamo avanti mettendo il primo tassello di questa convinzione.

BE A MAN

Rob viene bullizzato a scuola.
In fin dei conti è mingherlino, soffre di attacchi di panico, ed è poco incline allo sport. Quindi non stentiamo a crederlo.
Sono tutti aspetti che contribuiscono a formare l’idea che sia “inadeguato” e che dovrebbe imparare ad avere fiducia in sé stesso, per reagire ed essere conscio di sé. (Che poi è quello che gli verrà richiesto nella trama, tra l’altro.)
Il suo bullo, Daniel, è antipatico e fastidioso, come è giusto che sia per la figura che ricopre, e lo tedia minacciandolo di picchiarlo a suon di: “Forza, Fitzgerald! Vuoi combattere? Fatti sotto! Il gatto ti ha mangiato la lingua? Sii un uomo.”

‘Hey, Fitzgerald,’ he growled, his loaded chin only centimetres from mine, ‘gonna fight me, huh? Whaddya say? Cat got yer tongue? Gonna fight me, huh?’
Daniel is a fan of repetition. He is also a fan of the phrase ‘cat got your tongue?’ It is one of his favourite taunts, because I rarely talk at school unless I really have to. Most of the time, I keep quiet. Daniel finds me irritating and my shyness makes things worse.
I tried to edge past him. If I could make it onto school grounds, then a teacher on yard duty would spot us. Unfortunately, Daniel was wise to this and blocked my path.
‘C’mon, Fitzgerald,’ he said. ‘Be a man, all right? Man up.’ He laughed in my face, which was horrible since his breath comes straight from a baboon’s bottom. He also loves demanding that I ‘be a man’. Daniel obviously thinks this is hilarious, proof that he’s a few toppings short of a decent pizza.‘Tellya what. You can have first punch. C’mon. Can’t say fairer than that. Go on. First dig.’
I tried to stand my ground, despite his breath. We’d had the same confrontation for months. Here is what I wanted to say: ‘I am never going to fight you, Daniel, because all of human history teaches us that fighting solves nothing.’ But I kept my head down.
‘Cat got yer tongue?’ Daniel’s voice dripped with contempt. ‘Unless you want me to beat yer head in here and now, then say something. Doesn’t matter what. C’mon. Be a man. Just one word.’ He poked me on the shoulder. ‘Or can’t you speak?’
‘No,’ I mumbled.
‘Hah, loser,’ he chortled. ‘You said you can’t, but you used a word to say you can’t. Ha . . .’

– Ehi, Fitzgerald! – ringhiò, il mento carico a pochi centimetri dal mio. – Mi vuoi menare, eh? Che dici, fra’? Il gatto ti ha mangiato la lingua? Mi vuoi menare, eh?
Daniel ama ripetersi. Ama anche l’espressione “il gatto ti ha mangiato la lingua?”. È una delle sue prese in giro preferite, motivata dal fatto che a scuola parlo di rado, a meno che non sia proprio necessario. Per la maggior parte del tempo me ne sto zitto. Daniel mi trova irritante, e la mia timidezza peggiora le cose.
Cercai di schivarlo. Se fossi riuscito ad arrivare nel perimetro della scuola, un insegnante che controlla il cortile ci avrebbe notati. Sfortunatamente ci aveva pensato anche Daniel, così mi bloccò il passaggio.
– Dai, Fitzgerald! – mi disse. – Comportati da uomo! Fai l’uomo! –. Mi rise in faccia, che fu una cosa terribile, visto che il suo alito puzzava come il sedere di un babbuino. Ama dirmi di “fare l’uomo”: Daniel lo trova divertentissimo, prova che gli mancano un bel po’ di ingredienti per essere una pizza decente.
– Facciamo così, fra’. Tira tu il primo pugno. Eddai. Non posso aiutarti più di così. Avanti. Prima zappata.
Cercai di non indietreggiare, nonostante la fiatella.
Erano mesi che avevamo lo stesso scambio. Ecco cosa avrei voluto dirgli: “Non mi batterò mai con te, Daniel, perché l’intera storia dell’umanità ci insegna che la violenza non risolve niente”, invece tenni la testa bassa.
– Il gatto ti ha mangiato la lingua? – la voce di Daniel gocciolava di contentezza. – Se non vuoi che ti picchi subito sulla testa, di’ qualcosa. Quello che vuoi. Dai, fai l’uomo. Una parola sola –. Mi diede un colpetto sulla spalla: – O non sai parlare?
– No – sussurrai.
– Ahah, hai perso! – ridacchiò. – Hai detto che non sai parlare ma hai usato una parola. Ahah!

Quel “be a man” (“sii un uomo” o , come viene tradotto nel libro, “comportati da uomo! Fai l’uomo!”) potrebbe essere una semplicissima frase che inveisce su un ragazzino magrolino che non incarna una cultura adolescenziale di machismo. Sono più grosso di te, sono un uomo, sei più piccolo di me, fammi capire cosa diavolo sei se non puoi essere “adatto” come sono io.
Il fatto che poi Daniel sia un disadattato rafforza la nostra empatia nei confronti di Rob, che diventa a tutti gli effetti il nostro FULCRO DEL BENE. Questi piccoli gesti di sopravvivenza ci fanno capire che in queste circostanze lui è la vittima, quindi tendiamo ad apprezzarlo e a maturare un sentimento di protezione nei suoi confronti.

In fin dei conti è spiritoso, taciturno, e poco incline alla violenza. Rob è beneducato.
Un altro punto a favore per lui.

Però, a posteriori, il gesto di Daniel acquisisce uno scherno maggiore.

Non prende in giro Rob in quanto esemplare maschio debole, ma in quanto sesso debole che scimmiotta quello forte. Il suo “be a man” è un doppio dito nella piaga. Che acquisisce il tono di “puoi provarci quanto vuoi, ma sappiamo entrambi che non puoi. Forza, trova il coraggio di dirmi che mi sbaglio. Fammi vedere che sei forte come lo sono io. Non sei solo una femminuccia, sei proprio una femmina.”

L’autore ci ha gabbati di nuovo, ha fatto passare la sua esilità naturale femminile come un sottile difetto maschile, e nel frattempo ci ha avvicinato ancora di più a Rob. Al piccolo Rob che è troppo buono per fare a pugni con un idiota.
Abbiamo sotto gli occhi tutti gli elementi, ma il modo in cui sono gestite le parole non ci fa sortire il minimo dubbio che la nostra prima interpretazione sia quella sbagliata. Quando, a tutti gli effetti, lo è.

Pensate solamente a questa frase:

He also loves demanding that I ‘be a man’. Daniel obviously thinks this is hilarious, proof that he’s a few toppings short of a decent pizza.

“Ama dirmi di “fare l’uomo”: Daniel lo trova divertentissimo, prova che gli mancano un bel po’ di ingredienti per essere una pizza decente.”

Sdrammatizzando e buttando l’accento sull’idiozia di Daniel, ci ribadisce che Rob ha un senso dell’ironia spiccato, e che perciò è anche intelligente; in più distoglie l’attenzione dalla colpa di non riuscire (perché non può davvero) a “fare l’uomo adeguatamente” per i canoni di Daniel e per tutti coloro che incarnano la sua voce a scuola.

YOUNG ROB

Un altro uso sapiente delle parole, che contribuisce a sostenere l’illusione, è dato dal modo in cui suo nonno lo appella sempre.

‘Hello, young Rob,’ he said. ‘Would you like to accompany your old grandad to a fast-food restaurant for an after-school snack?’
‘Yes, please,’ I said.
‘Tough,’ he said. ‘Never been in one and not starting now. Blankety places use blankety offal.’ (You perhaps need to know that he doesn’t actually say ‘blankety’ – use your imagination.)

– Ciao, giovane Rob – disse. – Ti andrebbe di accompagnare il tuo vecchio nonno al fast food per una merenda?
– Certo, volentieri – risposi.
– Anche se, – aggiunse – non ci sono mai entrato e non ho intenzione di iniziare adesso. Quegli accidenti di posti usano quelle accidenti di interiora –. (Forse dovreste sapere che non ha detto proprio “accidenti” – usate la fantasia.)

Il vecchio opta per un neutrale “young Rob” (“giovane Rob”), che è valido sia per un maschio che per una femmina. E anche qui l’autore ha saputo giocarsi bene le carte. Soprattutto perché a un certo punto, la suggestione che sia un maschio davvero arriva a un livello tale che, quando il nonno gli racconta di quando era in Vietnam per la guerra e menziona dei “giovani soldati come te”, l’associazione viene fatta subito prevalentemente con la parola soldati, quando invece il nonno stava ponendo l’accento soprattutto sull’età media.

Sono delle sottigliezze, ma l’illusione è veramente credibile. Senza considerare che Rob si prende, ovviamente, una sbandata per una ragazza e nessun indizio ci fa credere che lui/lei sia omosessuale o eterosessuale.
È semplicemente innamorato. Siamo noi che colmiamo le informazioni che ci vengono date con convinzioni personali.
La TEORIA DELL’ICEBERG contribuisce a fare in modo che siamo noi stessi a costruirci le condizioni per far proliferare il rovesciamento finale. E a rendere il colpo di scena davvero funzionante.
È un gioco di prestigio dosato al millimetro.
Che ci fa intravedere qualcosa di diverso, da ciò che avevamo immaginato, solamente alla fine. E solo perché l’autore sceglie di insinuarci il dubbio nel momento del climax.

È un ottimo esempio di come una scrittura in prima persona possa essere utile per tacere l’identità del personaggio, se questa è fondamentale per il dipanarsi della storia.

Se siete arrivati fino a qui, non crediate che vi abbia tolto il gusto della lettura per avervi donato un po’ di IRONIA DRAMMATICA. Questa storia ha davvero tantissimo da dare, oltre a questa brillante gestione del PUNTO DI VISTA dell’autore.

Ve la consiglio davvero. E vi consiglio di essere prodi e di far fare un po’ di stretching al vostro inglese, se potete (soprattutto se siete autori). In fin dei conti è un libro per ragazzi e il linguaggio è molto pulito e chiaro, a parte qualche gioco di parole; vale lo sforzo.

Vi vengono in mente altri libri in cui avete riscontrato una gestione così sottile dei “punti ciechi” del punto di vista?

Che vi abbiano portato a credere una cosa quando invece era diametralmente un’altra?

Vi ricordate su cosa abbia fatto leva l’autore?

Be’, sono cose da tenere a mente per aggiungere un paio di carte al vostro mazzo.

Come sempre, fatemelo sapere. Mi farebbe piacere.

© Redazione Coffa ~ Erika Sanciu. Tutti i diritti riservati.

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